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“Scientia decoctionis”, ancora un chiarimento dalla Suprema corte

La sentenza 2557/08 (qui leggibile come documento correlato) segna la conclusione di una vicenda processuale instaurata a seguito di proposizione di revocatoria fallimentare. L’azione veniva promossa dal curatore del fallimento della Veneta Canali s.rl. per ottenere dal Tribunale di Padova la dichiarazione di inefficacia del pagamento di una ingente somma effettuato dal debitore nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, ad estinzione del conto intrattenuto con il proprio istituto di credito, con la restituzione della predetta somma, maggiorata della rivalutazione monetaria e degli interessi legali.
In primo grado la banca convenuta fondava la propria linea difensiva sul mancato raggiungimento della prova del requisito della scientia decoctionis, ossia della propria conoscenza dello stato di insolvenza del debitore. Chiamava comunque in causa i propri fideiussori omnibus, per essere manlevata in caso di esito negativo del giudizio. Effettivamente, nella contumacia dei terzi chiamati in causa, il giudice di prime cure accoglieva sia la domanda revocatoria che la domanda di garanzia.
Impugnavano la decisione l’istituto di credito e anche i fideiussori, il cui appello incidentale tuttavia, proposto con comparsa di risposta, veniva dichiarato inammissibile in quanto tardivo. La Corte d’Appello inoltre, in relazione alla dibattuta sussistenza del requisito della scientia decoctionis, si allineava a quanto affermato in primo grado, concludendo per la sussistenza di tale consapevolezza in capo all’istituto bancario sulla base di indici quali la revoca dei fidi, la pubblicazione di protesti e l’emissione di decreti ingiuntivi. Tali indici venivano inoltre ulteriormente valorizzati a causa dello status professionale rivestito dal creditore.
Ricorrevano i fideiussori, lamentando il mancato accoglimento della pregiudiziale eccezione di nullità dell’atto di citazione – in quanto privo dell’avvertimento di cui all’art. 163, co. 3, n. 7 c.p.c. – sollevata con la comparsa di risposta.
Ricorreva inoltre l’istituto di credito, affermando che gli indizi fondanti la sentenza impugnata non erano tali da provare in maniera grave e concordante la sussistenza della propria scientia decoctionis.
Si pronunciava la Suprema Corte, in primis in relazione all’eccezione di nullità, rilevando che qualunque nullità, ancorché assoluta e rilevabile d’ufficio, è sottoposta al principio di conversione delle cause di nullità in motivi di impugnazione, per cui il relativo vizio deve comunque formare oggetto di gravame, non di mera eccezione nella comparsa di costituzione e risposta. Faceva dunque discendere dalla mancanza di uno specifico motivo di gravame sul punto, la sanatoria della pretesa nullità, senza omettere di sottolineare che comunque, anche ove l’eccezione in esame, per come formulata, fosse stata da considerare motivo di appello incidentale, al suo esame ostava l’incontestata tardività dell’appello incidentale.
In ordine all’elemento soggettivo della scientia decoctionis inoltre – pur sottolineando che l’accertamento in ordine alla conoscenza dello stato di insolvenza costituisce di per sé un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità – la Suprema Corte confermava l’impostazione della sentenza impugnata, che a sua volta si allinea alla giurisprudenza maggioritaria. Rilevava al proposito che è possibile desumere la presenza dello stato soggettivo della scientia decoctionis da semplici indizi, valutabili alla luce del parametro della “comune prudenza ed avvedutezza” e della “normale ed ordinaria diligenza”. Specificava inoltre al proposito che, per valutare l’ordinaria diligenza non si potrà prescindere dal prendere in considerazione lo status professionale del terzo convenuto in revocatoria, nel caso di un istituto bancario, ponendo a suo carico un onere di esercitare le capacità cognitive medie proprie della categoria di appartenenza, quantomeno in presenza di indici che possano denunciare uno stato di difficoltà finanziaria del cliente. Dunque, le attitudini tecniche e le capacità cognitive dell’operatore economico rilevano in quanto permettono la intelligibilità della sintomatologia patologica dello stato di insolvenza in base al criterio dell’ordinaria diligenza normalmente rinvenibile nell’appartenente allo specifico status professionale. Nel caso specifico una particolare rilevanza nel senso di provare la conoscenza dello stato di dissesto veniva attribuita alla revoca del fido bancario che, a dire della Corte, avrebbe costituito anzi quasi prova diretta della conoscenza dell’insolvenza.

REVOCATORIA FALLIMENTARE E PROVA DELLA SCIENTIA DECOCTIONIS: IL RICORSO ALLE PRESUNZIONI
La sentenza in esame, che sembra prima facie riproporre tematiche e concetti ormai assorbiti da dottrina e giurisprudenza chiarendo in maniera puntuale come si debba atteggiare il giudizio sulla conoscibilità dello stato di insolvenza del debitore da parte del terzo creditore convenuto in revocatoria fallimentare ex art 67, comma 2 L.F., offre in realtà numerosi spunti per approfondire la tematica della presunzione.
Come noto, la revocatoria fallimentare, pur non avendo carattere di esclusività rispetto a quella ordinaria (art. 2901 c.c.), si caratterizza per l’alleggerimento dell’onere probatorio che riserva a tutela dei creditori. In particolare, in relazione all’elemento soggettivo che deve sorreggere gli atti di disposizione compiuti dal debitore, è evidente un atteggiamento di maggiore diffidenza da parte del legislatore, nei confronti non solo del fallito stesso, ma di tutti i terzi che abbiano attinto al patrimonio del fallendo durante un periodo per così dire, “sospetto”.
Tuttavia, sebbene si prescinda in ogni caso dalla conoscenza del danno da parte del debitore e la conoscenza del terzo sia spesso presunta legalmente, vi sono pure casi, e si tratta di quello in esame, in cui è pur sempre onere del curatore fallimentare provare che il terzo conosceva lo stato di insolvenza del debitore (art. 67 co. 2 l. fall.). Si parla al proposito di scientia decoctionis, e gli atti sottoposti a questo regime sono i normali atti onerosi ed i normali pagamenti compiuti nell’anno anteriore al fallimento: tutti i casi di operazioni passive per il patrimonio fallimentare che non manifestino un palese carattere intrinseco di “irregolarità” tale da far presumere un chiaro intento frodatorio rispetto alla massa dei creditori.
Nel caso di specie, come si è detto, oggetto di revocatoria era il pagamento di una ingente somma effettuato dal debitore al proprio istituto di credito nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, ad estinzione del conto intrattenuto con la banca, con la restituzione della predetta somma, maggiorata della rivalutazione monetaria e degli interessi legali. Era stato pertanto onere del curatore fallimentare provare che l’istituto di credito avesse ricevuto tale pagamento essendo consapevole della situazione di insolvenza che avrebbe di lì a poco condotto la società debitrice al fallimento.
La scientia decoctionis costituisce appunto uno stato soggettivo che focalizza l’attenzione sulla sfera di conoscenza del soggetto. Riproponendo la tradizionale distinzione, all’interno del concetto di dolo, tra volontà e rappresentazione, si potrebbe ricondurre il concetto di scientia decoctionis a quest’ultimo aspetto, ossia all’elemento cognitivo, prescindendo da quello volitivo.
La stessa terminologia di scientia decoctionis rievoca del resto istituti analoghi, presenti nella azione revocatoria ordinaria. Quest’ultima prevede ad esempio la scientia damni, per indicare la necessaria consapevolezza del debitore di pregiudicare il soddisfacimento delle ragioni del creditore: il debitore, nel compiere l’atto di disposizione, doveva sapere che effettivamente avrebbe dato origine ad un attuale e concreto pericolo di insolvenza. Si parla ancora di scientia fraudis, perchè in caso di atto anteriore al credito del revocante, è necessario provare non solo che il debitore avesse la precisa finalità di sottrarre il bene alla garanzia del futuro creditore (animus nocendi), ma anche che pure il terzo fosse a conoscenza di questa dolosa preordinazione da parte del disponente. Come è facile intuire, sempre con riferimento alla tradizionale distinzione tra volontà e rappresentazione, mentre l’animus nocendi attiene alla sfera volitiva del soggetto, la scientia, in tutti i casi considerati, si riferisce all’ambito cognitivo.
Queste considerazioni, prima facie meramente teoriche, sono invece di non poco conto, influendo sull’oggetto dell’onere probatorio gravante sul curatore fallimentare. Se infatti la volontà non può prescindere dalla consapevolezza, non varrà invece la regola contraria, per cui la necessità di provare l’elemento soggettivo potrà dirsi limitata almeno da questo punto di vista.
Ciò non toglie che la prova della scientia sia comunque una prova ardua, trattandosi pur sempre di uno stato soggettivo, in quanto tale interno al soggetto. Proprio in ragione di tale considerazione la giurisprudenza civile, in parallelo a quanto avviene in sede penale, ammette a pieno titolo il ricorso al mezzo di prova della presunzione semplice1.
Infatti la prova in questione, consistendo nell’esame dell’imperscrutabile animo interno al soggetto, si risolverebbe in una probatio diabolica, ove non si consentisse al curatore di servirsi di tutti i mezzi probatori che l’ordinamento gli fornisce.
In questo senso, conformemente a quanto ribadito nella sentenza in esame, affermava già Cass. civ., 15 dicembre 2006, n. 26935, in Giust. civ. Mass., 2006, pag. 12, che “in tema di revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del creditore (…), sebbene debba essere effettiva e non potenziale, può tuttavia essere provata anche attraverso indizi aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, quindi fondata su elementi di fatto che attengano alla conoscibilità dello stato di insolvenza, purché idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva.” Nel caso di specie la Cassazione, confermando la sentenza impugnata, attribuiva rilevanza, per il raggiungimento della prova della scientia decoctionis, alla circostanza che a carico della società debitrice pendessero numerose procedure esecutive, peraltro nella stessa città ove il creditore risiedeva e operava professionalmente, nonché al fatto che lo stesso creditore avesse avviato varie procedure monitorie, convenendo poi una sorta di transazione prevedente una decurtazione del proprio credito ed un pagamento rateale.
Il ricorso massiccio a questo mezzo probatorio che riscontriamo in relazione alla materia in oggetto pertanto non deve stupire dal momento che, in primis, come si è detto, si tratta di stati soggettivi afferenti alla sfera interna del soggetto, la cui prova sarà difficilmente raggiungibile in via diretta, in secondo luogo perché la presunzione semplice viene considerata dall’ordinamento mezzo probatorio di efficacia non inferiore rispetto agli altri.
È infatti pacificamente riconosciuto in giurisprudenza come, al di fuori dei casi di prove legali (artt. 2700, 2702, 2709, 2721, 2733, 2738 c.c.), non esista nel nostro ordinamento una gerarchia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori. L’ordinamento è fondato su principio del libero convincimento, per cui la valutazione delle prove è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (art. 116 c.p.c.) Ne consegue che, come avviene anche in sede penale (art. 192 c.p.p.), il giudice del merito, purché giustifichi in motivazione l’iter logico seguito, è libero di valutare le prove raccolte, organizzandole e dando a ciascuna di esse, come pure al loro complesso, il peso ed il significato ritenuti più opportuni.
Paradossalmente dunque, pur in presenza di altre prove acquisite, il giudice potrebbe fondare il proprio convincimento unicamente su una presunzione che conduca a soluzioni opposte, sempre che egli fornisca del convincimento così raggiunto una motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria.
Non è questo tuttavia il caso della fattispecie in esame perché, come si è detto, è ontologicamente impensabile avere una conoscenza diretta degli stati soggettivi, per cui in relazione alla prova della scientia decoctionis, con la presunzione semplice non concorrono altri mezzi probatori.
È proprio in considerazione di ciò che assume dunque un ruolo fondamentale la valutazione dell’intrinseca efficacia probante della presunzione semplice, in termini di gravità, precisione e concordanza, secondo quanto disposto dall’art. 2729 c.c.. Infatti la presunzione costituisce una prova critica, che non ha ad oggetto lo stesso fatto da accertare, ma sfrutta il meccanismo del cosiddetto sillogismo giudiziale per provare l’esistenza di fatti ignoti desumendoli da fatti ignoti. Proprio in ragione di ciò il legislatore esige la sussistenza dei predetti requisiti di gravità, precisione e concordanza, che devono supportare l’inferenza giudiziale. Lo stesso accade – e la formula non a caso è proprio la medesima- in sede penale (art. 192 c.p.p.), in relazione alla valutazione degli indizi. Il meccanismo della presunzione infatti opera anche in sede penale, perchè gli stessi indizi costituiscono la tipica prova indiretta o critica – che si contrappone alla prova diretta o rappresentativa- in quanto consistono in fatti certi dai quali, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto, secondo lo schema del suddetto sillogismo giudiziario (Cass. pen., Sez. Un., 4 giugno 1992, n. 6682).
In particolare, come noto, il requisito della precisione impone che i fatti noti e l’iter logico del ragionamento siano ben determinati nella loro realtà storica (Cass. civ., 24 febbraio 2004, n. 3646), giacché non potrebbe essere consentito fondare la prova critica su un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, e non accertato come realmente verificatosi (Cass. pen., sez. I, 10 maggio 1995, n. 118), poiché, come si è detto, il procedimento probatorio in esame, per sfociare nella prova di atti ignoti, deve fondarsi su circostanze di sicura verificazione.
Sotto questo punto di vista il procedimento logico condotto dall’organo giudicante nella vicenda processuale in esame non era oggetto di critica da parte dei convenuti. I fatti noti su cui veniva basata la presunzione della scientia decoctionis della banca, ossia la revoca dei fidi, la pubblicazione di protesti e l’emissione di decreti ingiuntivi compiuti dall’istituto di credito nei confronti del debitore, erano fatti sufficientemente provati e incontestati. Nulla quaestio dunque in ordine alla precisione degli elementi probatori.
Al contrario, la ricorrente lamentava l’assenza dei connotati della gravità e della concordanza che parimenti devono caratterizzare la presunzione.
Quanto alla concordanza, giova sgombrare il campo da un equivoco che in passato ha acceso dibattiti giurisprudenziali sia in sede civile che in sede penale. Secondo quanto ormai si riconosce pacificamente in materia civile, il fatto che il legislatore faccia riferimento al requisito della “concordanza”, non significa che gli elementi probatori assunti a fonte della prova critica debbano essere necessariamente plurimi, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un solo elemento – purché grave e preciso- e dovendosi il requisito della “concordanza” ritenere menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi. Sebbene con maggiori esitazioni – dovute chiaramente alla delicatezza della materia- la stessa conclusione sembra trovare accoglimento anche in sede penale. Infatti, nonostante voce autorevole abbia sostenuto che l’art. 192 c.p.p., col richiedere la necessaria pluralità di indizi, abbia recepito una concezione dell’indizio come probatio minor, dottrina e giurisprudenza maggioritarie affermano che la regola della necessaria pluralità di indizi non va intesa in senso assoluto.
D’altra parte, qualora, come accade nel caso di specie, gli elementi probatori fondanti la presunzione siano effettivamente molteplici, la concordanza si traduce nella possibilità di ricostruire il fatto, la vicenda storica oggetto dell’inferenza, in senso univoco, o comunque tale da escludere altre ragionevoli ipotesi. Il procedimento richiesto, continuando l’analisi in una prospettiva interdisciplinare, sembra sotto questo punto di vista analogo a quello richiamato dalla nota sentenza Franzese in relazione alla verificazione del nesso causale in sede penale.
Ed invero, giova ricordare che nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

PRESUNZIONE E STATUS PROFESSIONALE
La sentenza che si annota affronta, nella parte di suo maggiore interesse, il profilo dell’elemento soggettivo posto a presupposto della revocatoria fallimentare dall’art. 67, comma 2 L.F.
La giurisprudenza è costante e pacifica nell’ammettere che la prova della conoscenza dello stato d’insolvenza richiesta al curatore fallimentare affinché possa addivenirsi alla dichiarazione di inefficacia del pagamento effettuato dal debitore nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento possa essere provata non solo direttamente, ma anche attraverso elementi che siano gravi, precisi e concordanti.
Ed invero la sentenza di cui in rassegna partendo dal presupposto dell’irrilevanza della mera conoscibilità astratta ed oggettiva delle condizioni economiche del debitore poi fallito è giunta alla possibilità di desumere la conoscenza dello stato d’insolvenza da semplici indizi parametrati al criterio della “comune prudenza ed avvedutezza e della normale ed ordinaria diligenza”.
Lo status professionale del terzo incide nella maniera in cui pone all’operatore degli strumenti conoscitivi e delle competenze tecniche che presumibilmente gli permettono di arguire da alcuni concreti indici la sussistenza dello stato d’insolvenza.
Un altro punto che la S.C. sottolinea è che il giudizio sugli elementi che fondano la presunzione e il giudizio logico che fan sì che si possa dire provato il fatto ignoto consistono in un giudizio di fatto, sottratto al giudizio di legittimità se non per vizi di motivazione. La questione principale e di maggior interesse quindi affrontata in tale decisione dalla corte appunto concerne il diverso atteggiarsi della c.d. scientia decoctionis a seconda della categoria cui appartiene il terzo creditore.
Altro motivo importante della decisione in commento che merita di essere sottolineato è la relatività della conoscenza dell’insolvenza.
Ebbene se la nozione di insolvenza è unica è pur vero che il dissesto esiste in maniera differente in relazione appunto ai diversi modi di conoscerlo da parte del terzo. Ciò del resto collima perfettamente con il meccanismo delle presunzioni che si fonda su regole di esperienza storicamente accertate.
In quest’ottica quindi le qualità soggettive del terzo sono senz’altro suscettibili di assumere rilievo nel giudizio diretto ad accertare l’esistenza dell’elemento soggettivo.
Poste tali premesse quindi ritornando al caso in commento la Corte si è correttamente allineate ai principi dettati dal giudice di secondo grado che ha per l’appunto desunto la conoscenza dello stato d’insolvenza da parte dell’Istituto bancario prima di tutto da sintomi esterni ma anche sulla base di rapporti contrattuali di conto corrente intercorrenti tra la banca e l’imprenditore insolvente. Peraltro aggiunge la Corte che gli elementi di cui in parola costituivano chiari sintomi d’insolvenza. quindi il giudizio sulla presumibile consapevolezza sullo stato di decozione del fallito è stata giustamente fondata sul concreto collegamento dei segni esteriori del dissesto con la capacità conoscitiva del terzo, misurata sulla base di rapporti effettivamente intrattenuti con il fallito e agli strumenti privilegiati di conoscenza posseduti.
Tirando le fila in buona sostanza, con la decisione resa dalla Corte Suprema, si è inteso evidenziare il significato degli indici rivelatori dell’insolvenza e della conoscibilità da parte del soggetto sottoposto ad azione revocatoria, per pagamenti effettuati nel periodo sospetto.


1 In questo senso Cass. civ., 8 giugno 1983, n. 3937, secondo cui anche per la revocatoria ordinaria (oltre che per quella fallimentare) è ammissibile la prova per presunzioni semplici della scientia damni da parte dell’acquirente, senza che, in mancanza di limitazioni stabilite dalla legge, sia al riguardo da richiedere un particolare rigore o da adottare un diverso concetto di presunzione semplice, che, costituendo un mezzo di prova sussidiario, utilizzabile in assenza di prove contrarie e rimesso al prudente apprezzamento del giudice, può fornire solo una certezza relativa, idonea a colmare le alcune istruttorie, specialmente in materie nelle quali è difficile o impossibile acquisire la prova diretta. Analogamente Trib. Napoli, 16 marzo 1991, in Banca, borsa 1992, fasc. II, pag. 605, con nota di BARUZZI.

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