Consulta: l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio non è incostituzionale
La recente decisione della Corte Costituzionale italiana in merito all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio rappresenta un momento cruciale nella riflessione giuridica e politica sulla disciplina della pubblica amministrazione e sulla lotta alla corruzione. La Corte ha stabilito che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio operata con la legge n. 114/2024 non è incostituzionale, rigettando la maggior parte delle questioni di legittimità sollevate da ben quattordici autorità giurisdizionali, compresa la Corte di Cassazione.
Il contesto normativo
Il reato di abuso d’ufficio, previsto dall’art. 323 del Codice Penale, ha storicamente avuto la funzione di sanzionare i pubblici ufficiali che, nell’esercizio delle proprie funzioni, violassero specifiche regole di condotta arrecando un danno o procurando un vantaggio patrimoniale indebito. Nel tempo, però, tale norma è stata spesso oggetto di critiche per la sua formulazione vaga, che generava incertezza interpretativa e rischiava di paralizzare l’azione amministrativa per timore di esporsi a responsabilità penale.
La legge n. 114 del 2024 ha quindi deciso di abrogare la fattispecie penale, con l’obiettivo dichiarato di semplificare l’azione amministrativa e ridurre il cosiddetto “eccesso di burocrazia difensiva”.
Le questioni di legittimità costituzionale
A seguito di tale abrogazione, numerosi giudici italiani hanno sollevato questioni di costituzionalità, ritenendo che la soppressione del reato potesse violare sia i principi fondamentali della Costituzione (in particolare gli articoli 3, 97 e 113, che tutelano il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e il diritto a ricorrere contro gli atti amministrativi), sia obblighi internazionali, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003, nota come Convenzione di Merida.
La decisione della Corte Costituzionale
La Corte ha deciso di dichiarare ammissibili soltanto le questioni relative alla Convenzione di Merida, ritenendo le altre irrilevanti o manifestamente infondate.
Tuttavia, nel merito, ha escluso che dalla Convenzione di Merida derivi l’obbligo per gli Stati firmatari di prevedere nel proprio ordinamento una norma penale specificamente dedicata all’abuso d’ufficio. Né esiste un divieto di abrogare tale reato qualora esso sia già presente nel sistema normativo nazionale. La Corte ha dunque stabilito che l’abrogazione non contrasta con il diritto internazionale, e di conseguenza non può ritenersi incostituzionale.
Le motivazioni attese
Le motivazioni dettagliate della sentenza non sono ancora state pubblicate, ma lo saranno nelle prossime settimane. Esse saranno fondamentali per comprendere:
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la ratio della decisione, ovvero il ragionamento giuridico sottostante alla dichiarazione di non incostituzionalità;
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l’interpretazione della Corte sulla portata degli obblighi internazionali in materia di lotta alla corruzione;
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l’impatto dell’abrogazione sul sistema di tutela della legalità amministrativa e sul rapporto tra diritto interno e convenzioni internazionali.
Implicazioni e dibattito
Questa pronuncia alimenta un dibattito acceso tra chi sostiene che l’eliminazione del reato fosse necessaria per evitare l’iper-penalizzazione dei pubblici amministratori, e chi invece ritiene che l’assenza di una norma simile rappresenti un vulnus nella lotta alla corruzione, privando l’ordinamento di un importante strumento di prevenzione e repressione degli abusi nella gestione della cosa pubblica.
Inoltre, la decisione potrebbe rafforzare l’indirizzo legislativo attuale, più orientato alla depurazione del codice penale da fattispecie generiche o di difficile applicazione, ma solleva interrogativi sulla capacità dello Stato di garantire la trasparenza e la responsabilità degli apparati pubblici attraverso altri strumenti giuridici o amministrativi.