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Responsabilità aggravata per lite temeraria: uno strumento per garantire la ragionevole durata del processo

L’istituto della responsabilità aggravata è disciplinato dall’art. 96 c.p.c. il quale stabilisce che se la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice su richiesta dell’altra parte, la può condannare, oltre al rimborso delle spese sostenute anche al risarcimento dei danni subiti, che liquida. La stessa cosa il giudice può fare in seguito a rilevazione d’ufficio.
Il suddetto istituto della responsabilità aggravata è stato di recente sottoposto a reinterpretazione dettata dalla necessita di adeguarsi ad un ordinamento che mutua costantemente per restare al passo con i ritmi frenetici e accelerati che la società moderna impone. Quanto sta accadendo, però, non deve sorprendere se si pensa al modo in cui tanto l’intero diritto privato, quanto lo stesso diritto processuale civile, negli ultimi anni siano stai oggetto di quello che è stato definita una vera e propria rivoluzione legislativa. Stando al disposto dell’art. 96 c.p.c. , tale norma è stata interpretata in modo da identificare il danno con la perdita ed il mancato guadagno ai sensi dell’art. 1223 c.c. e l’onere della prova è stato tendenzialmente ripartito stando alla regola generale dettata dall’art. 2697 c.c. In tal senso la responsabilità processuale aggravata rilevata in seguito a mala fede o a colpa grave deve essere intesa, alla luce di quanto dettato dall’art. 96 c.p.c., come una figura di responsabilità extracontrattuale, ed in quanto tale è tenuto a rispettare il principio generale in base al quale colui che intende percepire il risarcimento dei danni deve fornire la prova sia dell’an che del quantum.
Una tale interpretazione ha dovuto subire gli effetti di quello che è uno scontro quotidiano che avviene nelle aule dei tribunali con le difficoltà palesi, oltre che obiettive, per i difensori di fornire in concreto la prova del pregiudizio patito, e per i giudici di non liquidare il danno se non risulti dagli atti elementi idonei ad identificarne in concreto l’esistenza. Si è giunti, per questa via, a non poter più accogliere un impostazione del genere, imponendo l’obbligo di un ripensamento nel merito della norma il che ha portato, così come è gia accaduto per numerose altre norme, ad una reinterpretazione della norma stessa che ha finito per farle assumere il ruolo di tutela del principio di ragionevole durata del processo stabilito dall’art. 111 Cost.
Tale diversa lettura del disposto dell’art. 96 c.p.c. combinata con i principi del giusto processo determina un radicale stravolgimento della prospettiva: in questo modo si trasforma in strumento di tutela del principio di ragionevole durata del processo, come disposto dal richiamato art. 111 Cost., abbandonando la tradizionale conformazione di strumento risarcitorio posto a difesa degli interessi privatistici del soggetto leso.
Evidente, dunque, come la norma richiamata venga ad assumere una funzione sanzionatoria in merito ad una condotta disdicevole e dannosa per gli interessi della collettività. Ecco che i destinatari della norma vengono ad essere il legislatore e la Corte Costituzionale. Il destinatario della norma di cui all’art. 111 Cost., dunque, è in primo luogo il legislatore ordinario il quale tenuto ad introdurre disposizioni normative che non contrastino con il principio della ragione durata del processo. Tutto ciò comporta il dovere in capo al legislatore di fornire al processo di un assetto strutturale adatto ad assicurare alla giustizia le risorse ed i mezzi adeguati per garantire una ragionevole quantità di lavoro per tutti gli addetti del settore.
Al riguardo sono due le considerazioni che si rendono necessarie sul punto. La prima è che tale obbligo per il legislatore è solo morale, mentre la seconda attiene al fatto che l’efficienza della giurisdizione comporta un ragionevole bilanciamento con gli altri valori costituzionali non assurgendo pertanto a valore assoluto.
La disposizione inoltre è indirizzata alla Corte Costituzionale la quale dovrà metterla in pratica tutte le volte in cui la norma venga richiamata in qualità di norma-parametro in sede di sindacato di costituzionalità delle leggi.
In pratica, stando a questa interpretazione, la dottrina ha sottolineato che la Corte Costituzionale può, se lo ritiene necessario, analizzare la legittimità di quelle disposizioni normative, che astrattamente presumono modalità irragionevoli del processo e/o durate temporali al quanto eccessive oltre a formalità decisamente irrazionali e soprattutto inutili, ed in quanto tali non giustificate da esigenze di effettività dei c.d. diritti di azione o difesa, né allo stesso modo da interessi strutturali prevalenti.
In verità è da osservare che, sempre nell’ottica del principio del giusto processo, le disposizioni del codice e le altre norme processuali richiamate, e quindi utilizzate, andranno ad indirizzarsi oltre che al legislatore ordinario ed alla Corte costituzionale, anche agli interpreti. Da ciò si evince che, tra le diverse interpretazioni possibili relative a norme ed ad istituti processuali, gli interpreti saranno tenuti a preferire quella che, senza incidere negativamente su altri principi o valori costituzionali, sembra più adatta a dare applicazione al principio del giusto processo.
In quest’ottica, nella direzione di una reinterpretazione del sistema dettata in conseguenza dei nuovi principi costituzionali sul giusto processo e sulla ragionevole durata, va segnalata la recente sentenza del Tribunale di Roma del 18.10.2006 che ha confermato una lettura in chiave costituzionale del citato art. 96 c.p.c. diretta a semplificarne l’impiego. In questo modo, essa, agendo da deterrente nei confronti delle iniziative e delle resistenze giudiziali che non hanno motivo di esistere, funge come presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito, come più volte detto, dall’art. 111 Cost. Abbiamo detto che l’art. 96 c.p.c. è il luogo in cui è contenuta la disciplina completa relativa alla responsabilità processuale aggravata e che fino ad ora è stato interpretato in modo che il danno, al quale si riferisce la norma, venisse identificato con la perdita e/o il mancato guadagno ai sensi dell’art. 1223 c.c. per il tramite dell’art. 2056 c.c. e che l’onere della prova venisse ripartito in base alla regola generale dettata dall’art. 2697 c.c.. È per questo motivo che l’art. 96 c.p.c., nel regolamentare la responsabilità processuale aggravata come una figura di torto extracontrattuale aggravata dalla mala fede o dalla colpa grave della parte soccombente, non era in grado di derogare al principio in virtù del quale colui che intende ottenere il risarcimento dei danni deve fornire la prova, come prima ricordato, sia dell’an che del quantum e conseguentemente il giudice non era in grado di poter liquidare il danno, a meno che dagli atti non risultasse elementi tali da identificarne concretamente l’esistenza. Come già detto tale orientamento non può essere accolto perché non consente di fornire una dettagliata deduzione e prova del torto subito.
È per questo che l’art. 96 c.p.c., correlato con l’art. 111 Cost. relativo al giusto processo, inserito nel panorama della disciplina aquilana finisce col rispondere essenzialmente ad una logica risarcitoria ma questo no impedisce che lo stesso disposto dell’art. 96 c.p.c. possa manifestare anche una funzione sanzionatoria, come detto, di una condotta disdicevole e dannosa per la collettività.
Inoltre non è da sottovalutare il fatto che tale funzione finisca col tradursi in una agevolazione, dal punto di vista dell’allegazione della prova, degli oneri gravanti sul danneggiato. Volendo andare nel particolare potremmo arrivare a dire che l’art. 96 c.p.c. mostrerebbe in tal modo una congenita funzione sanzionatoria di una condotta disdicevole e dannosa per l’intera collettività.
Ritorna in auge, in questo modo, quella dottrina in base alla quale il principio della ragionevole durata del processo avrebbe oltre ad una dimensione interna anche una dimensione esterna svolgente il ruolo di evitare il nascere di ulteriori processi.
Questa nuova interpretazione svolgerebbe quindi una funzione decisamente preventiva in quanto si riverserebbe in maniera positiva sul sopravveniente giudizio e potrebbe anche rappresentare un utile rimedio contro l’abuso del processo. Rendendo pratica la minaccia di un frequente utilizzo dell’art. 96 c.p.c., agevolata anche da una semplificazione nella prova del danno, si arriverebbe probabilmente ad ottenere l’effetto di scoraggiare la proposizione di contenziosi del tutti privi di fondamento.
A quanto sin ora detto bisogna aggiungere l’equa riparazione di cui parla l’art. 2 della Legge n. 89/2001, senza peraltro confondersi con essa. In effetti, mentre l’equa riparazione si prospetta nel caso in cui la pretesa richiesta in sede di giudizio dalla parte sia priva di fondamento legale, i casi di abuso si individuano nel momento in cui risulta che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia resistito in giudizio col solo fine di perseguire, utilizzando strategie processuali di diversa natura, il configurarsi della fattispecie legale del diritto all’equa riparazione. In questa prospettiva è da non sottovalutare l’arduo ed ampio lavoro posto in essere dai giudici di merito. Infatti dopo i primi passi mossi in questa direzione nel tentativo di rivitalizzare il contenuto dell’art. 96 c.p.c. in diverse aule di tribunale, basti pensare, tanto per fare qualche esempio, alle sentenze dei Tribunali di Reggio Emilia del 31.5.2005 e del Tribunale di Bologna del 20.9.2005, il Tribunale di Genova con sentenza del 12.9.2006 ha censurato il comportamento dilatorio di una compagnia assicurativa che aveva resistito in giudizio senza neanche avere ragione al giudizio stesso. Tale sentenza ha riconosciuto chiaramente il danno non patrimoniale causato dall’eccessiva durata del processo con una dissertazione che richiamava ad una lettura dell’art. 96 c.p.c. costituzionalmente orientata, in base ai principi dell’art. 111 Cost., letto non come indirizzo programmatico per il legislatore, ma come un diritto soggettivo che è azionabile nei riguardi dell’amministrazione giudiziaria.
In tal modo risulta chiaro come sia uno specifico diritto a pretendere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che scaturiscono dalla dilatazione dei tempi processuali collegata a difese meramente strumentali delle parti soccombenti in giudizio. Immediatamente dopo si colloca la sentenza del Tribunale di Roma su citata che conferma l’insediamento e l’espansione dell’orientamento interpretativo dell’art. 96 c.p.c., interpretazione questa ovviamente costituzionalmente orientata.
L’obiettivo è quello dunque di punire e evitare la condotta di chi usa ed abusa del processo. Di qui l’urgenza di alleviare l’onere probatorio del danneggiato, in linea, anche con il novellato art. 385 c.p.c., che prevede, anche d’ufficio, la condanna del soccombente al pagamento di una somma determinata secondo equità.
Secondo quanto dice questa reinterpretazione dell’art. 96 c.p.c. la disciplina giunge a incanalare su di sé tutte le ipotesi di atti e comportamenti processuali delle parti e rivestire ogni eventuale effetto che ne derivi. La violazione degli obblighi di correttezza processuale comporta la responsabilità di chi abbia agito e/o resistito in giudizio in mala fede o con colpa grave.
A proposito della colpa grave si è pronunciata numerose volte la Suprema Corte per la quale tale concetto è da intendersi nel significato di colpevolezza, o di ignoranza scaturente dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza della tesi fatta valere, od ancora si imbatte nella colpa grave chi ha agito o persistito in una pretesa consapevolmente infondata, vale a dire senza la minima analisi della giustezza e della ragionevolezza della pretesa; ma la colpa grave consiste anche nella consapevolezza dell’infondatezza o della carenza della normale diligenza diretta all’acquisizione di tale consapevolezza. Ed in tale ordine di idee si sono pronunciate anche le più recenti pronunce della Suprema Corte.
Il collegamento tra la responsabilità di cui all’art. 96 c.p.c. e la disciplina degli atti e dei comportamenti processuali, non si traduce automaticamente in limitazione della risarcibilità come è stato lungamente sostenuto dalla dottrina.
Una tale responsabilità, invece, rende in ogni modo rimborsabile qualsiasi tipo di danno provocato da una delle condotte tipizzate collegate al processo e, per questo, senza nessuna limitazione ai soli danni processuali. Quindi possono essere presi in considerazione anche i danni di natura non patrimoniale oltre naturalmente ai danni patrimoniali.
Superate alcune incertezze iniziali, anche la giurisprudenza ha finito col riconoscere la categoria del danno esistenziale. Quindi secondo la via delineata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, questo danno esistenziale sembra riscontrabile in qualsiasi pregiudizio, in ogni caso di natura non esclusivamente emotiva ed interiore, ma oggettivamente riscontrabile che cambi la sue abitudini, spingendolo a scelte di vita differente in ordine all’espressione ed alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Quindi, in casi di rilevata lite temeraria, il danno processuale risarcibile può comprendere anche situazioni esistenziali, le quali vengono individuate nella perdita di tempo subita dalla parte che ha dovuto recarsi dal difensore, oltre a prender parte alle udienze del processo; tempo questo che viene in questo modo tolto alle attività di svago e di divertimento della persona dato che anche se non è sottratto all’attività lavorativa è comunque tolto alle attività di svago, con relativo peggioramento, pur se limitato nel tempo, della qualità della sua vita. Su questa strada si è osservato che l’art. 96 c.p.c. risponde tendenzialmente ad una logica risarcitoria, ma tutto questo non toglie che la stessa disposizione manifesti anche una funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’intera collettività la quale non può che tradursi in un’agevolazione, per quanto riguarda l’allegazione della prova, degli oneri incombenti sul danneggiato.
L’illecito è così rinvenibile in tutte quelle occasioni in cui l’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantita assuma i caratteri di abuso di quel diritto, vale a dire nel caso in cui consista in un suo esercizio al di là dei limiti inquadrati dalla sua stessa funzione. Il presupposto normativo della forma risarcitoria è rinvenibile, dunque, quando finisca per essere leso un interesse provvisto di rilevanza costituzionale.
Al riguardo, è stato evidenziato come la limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge va ricondotto, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, nel caso in cui si tenga conto che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili riguardante la persona, ne richiede la protezione, delineandosi così un caso determinato dalla legge al livello più elevato, di riparazione del danno patrimoniale. Questa interpretazione ha consentito di ravvisare la riconoscibilità non solo del danno morale in senso stretto, ed in ogni caso non solo del danno non patrimoniale lesivo di interessi di rango costituzionale relativi alla persona pur se non tipizzati.
Questo orientamento è da considerarsi ormai definitivo, se da un lato ha esteso l’area del danno risarcibile in misura decisamente notevole, dall’altro, ha spinto ad un ripensamento della categoria di danno che in passato veniva sempre più usata per sopperire e rimediare alla mancanza di risarcibilità di un’ampia area che la coscienza sociale e giuridica in ogni caso percepivano come danno, cioè la categoria del danno esistenziale
Da quanto detto in precedenza si può facilmente individuare l’interesse di rango costituzionale che può risultare leso dal fatto di agire o di resistere in giudizio con mala fede o colpa grave da parte del soccombente.
Per quel riguarda il profilo probatorio, in particolar modo la componente patrimoniale, è opportuno rilevare l’elemento oggettivo e quello soggettivo. Solitamente si ritiene che non può applicarsi il dettato dell’art. 96 c.p.c. nel caso in cui risulta mancante la prova dell’elemento soggettivo, consistente nella prova dell’aver agito o resistito in un giudizio con mala fede o colpa grave, e nel caso in cui manca la prova dell’elemento oggettivo, costituito dall’ipotizzabilità o dall’effettiva esistenza di un danno patito dalla controparte come conseguenza immediata e diretta di un tale comportamento. Da tempo, infatti, la giurisprudenza non richiede una prova rigorosa come dimostrazione del danno patito dalla parte in conseguenza della lite temeraria, poiché il giudice può ricavare l’esistenza e l’ammontare del danno anche da concetti di comune esperienza.
Se si considera il pregiudizio che la parte ha subito per essere stata costretta a osteggiare un’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario vediamo che esso si materializza nell’impatto negativo che il processo ha generato sulla sua quotidianità.
Infatti, il cambiamento in senso peggiorativo degli stili e della qualità della vita derivante dall’essere costretti a difendersi da una lite temeraria è tutt’altro che un fatto arduamente dimostrabile.
Questo significa che il tempo della giornata impiegato per preparare la difesa, consistente in incontri col difensore, ricerca dei documenti efficaci per la difesa, partecipazione alla od alle udienze del processo, viene utilizzato in queste attività e non può essere destinato allo svolgimento di altre attività quali ad esempio attività sportive od incontri con amici e parenti.
In pratica, come ha sostenuto una parte autorevole della dottrina il processo obbliga ad eseguire attività che la parte avrebbe volentieri evitato di compiere e che può trovare sgradevoli e che pertanto impediscono di svolgere la vita così come la si era programmata o per quelle che erano le sue abitudini. Comporta una diversa pianificazione della vita che può essere giustificata solo se il processo non sia stato posto in essere dolosamente o per grave colpa, se l’attività cautelare non sia sostenuta dalla prudenza che caratterizza l’utilizzo di strumenti processuali che impongono vincoli istantanei alla controparte. Tutto quello che nella vita di un uomo risulta essere diverso dalle attività lavorative, a differenza di come era considerato in passato, vale a dire privo di rilevanza giuridica, è oggi, invece, considerato meritevole di tutela giuridica. Infatti, di concerto con la tesi sostenuta da parte della dottrina è opportuno garantire il risarcimento di tutto quello che il processo non ha consentito di fare sottraendo tempo all’esistenza della persona, includendo in quest’ordine di idee tanto le semplici modificazioni delle abitudini di vita quanto i danni più gravi come ad esempio la perdita del lavoro o delle relazioni affettive. Inquadrati in questo modo i danni richiesti in base all’art. 96 c.p.c., per quel che riguarda la loro liquidazione occorre rilevare che se la giurisprudenza da tempo sostiene il principio che l’onere della prova grava sulla parte che si dichiara danneggiata, alla luce delle considerazioni fatte fin ad ora, è innegabile che deve dare valore anche ad un ruolo per così dire ufficioso del giudice.
Particolare sensibilità da questo punto di vista ha dimostrato anche la sentenza del Tribunale di Bari – Sezione prima del 30 aprile – 20 maggio 2008, n. 1274 (pubblicata nell’arretrato del 4 giugno 2008 – ndr) che ha evidenziato il fatto che il risarcimento di cui all’art. 96 c.p.c. è onnicomprensivo.

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