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Le teorie sullo sviluppo e sostenibilità dei vantaggi: la variabile ambientale nell’impresa

  1. Vantaggio competitivo e profittabilità nella prospettiva

Lo stato della sostenibilità a scala planetaria non sembra mostrare segni di miglioramento. I parametri fisici della sostenibilità mostrano per lo più trend negativi o insufficienti, a parte qualche rara eccezione che testimonia come sia comunque possibile invertire tendenze avverse.

Nonostante gli sforzi e qualche progresso gli obiettivi del Millennio fissati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2000 non verranno conseguiti in tempo utile senza ulteriori e decisi interventi. Anche nei Paesi ad alto reddito compaiono avvisaglie se non di un deterioramento, di un rallentamento dei progressi in campo sociale, con disparità ancora crescenti, nuove fasce di povertà, insicurezza in campo lavorativo ecc.

I risultati del programma Millennium Ecosystem Assessment promosso delle Nazioni Unite, il più recente e completo tentativo di reporting e valutazione dello stato dell’ecosistema planetario, indicano un declino di ben 15 servizi ambientali su 24, servizi dai quali dipende direttamente la sopravvivenza di tutti gli esseri umani, indipendentemente da censo e regione di appartenenza (Tab. 1). A livello locale vi sono oramai prove evidenti di collasso dei sistemi ecologici, come il caso di diversi stock ittici dell’Atlantico. I cambiamenti del sistema climatico, per i quali si è finalmente riconosciuta a livello del G8 una qualche responsabilità umana, rappresentano una minaccia sempre più concreta, in particolare per le economie meno sviluppate. Più in generale sembra lecito ipotizzare che gli attuali livelli di prelievo di risorse e di produzione di rifiuti delle attività umane abbiano raggiunto e superato, su scala globale, la carrying capacity planetaria. Se ciò è vero, in accordo tra l’altro con quanto registrato dall’indice dell’impronta ecologica planetaria, si determina la necessità di intervenire con estrema urgenza e profondità per evitare gravi ripercussioni sullo sviluppo e sul benessere dell’umanità.

Lo sviluppo sostenibile è un progetto globale, come testimonia la sede in cui è nato, le Nazioni Unite. Il ruolo degli stati nazionali è definito in accordo con il principio di responsabilità condivisa ma differenziata: esso assegna ai paesi ad alto reddito, in base all’impatto cumulativo prodotto dalla loro storia, il compito di guidare il cambiamento verso un futuro sostenibile. Ogni tipo di relazione internazionale, economica ma non solo, deve tenere conto di questi due fattori: i progressi verso obiettivi comuni e un impegno differenziale.

Nei Paesi ad alto reddito, e non solo in questi, un numero crescente di persone chiede al mondo della rappresentanza politica una maggiore attenzione alle tematiche ambientali, della equità e della giustizia a livello internazionale, della qualità della vita libera da considerazioni di tipo strettamente economico. Tali cambiamenti sono stati rilevati, tra gli altri, anche in due recenti indagini di Eurobarometro[1] che evidenziano come per la maggior parte dei cittadini europei esista un nesso positivo tra tutela ambientale e sviluppo economico. Sembrano, insomma, esserci le condizioni per ottenere un ampio consenso intorno a politiche orientate alla sostenibilità ma anche per supportare una domanda sostanziosa di beni e servizi sostenibili. D’altro canto il mondo imprenditoriale non è rimasto a guardare.

Sono fiorite una quantità considerevole di iniziative volte a garantire adeguati standard di tutela ambientale e sociale utilizzando, ad esempio, il sistema delle certificazioni.

Gruppi di imprese hanno stretto alleanze per avviare progetti di sostenibilità, per rinnovare i propri metodi di produzione o per promuovere una ricerca mirata, come nel caso di alcune compagnie petrolifere che investono sulle fonti energetiche alternative. Intere economie, come quella cinese, puntano sempre più, per il loro sviluppo economico, su recupero e riciclo di materie prime, aumento della efficienza di processo e così via. È probabilmente vero che alcune di queste operazione siano state compiute più per spirito opportunistico che per sincera adesione ai principi della sostenibilità. Ma è anche vero che non spetta al mondo delle imprese intervenire autonomamente sui modelli di produzione e consumo: ciò significherebbe, infatti, gravare il sistema economico di un compito squisitamente politico che non ha e che non deve avere.

Se il sistema produttivo sarà in grado di soddisfare la nuova domanda di sostenibilità e di alimentarla, in questo coadiuvato dalle opportune misure politiche, si potrà generare un ciclo virtuoso con effetti benefici sia in termini economici che di sostenibilità. Ciò, oltre ad avere ripercussioni già nel breve periodo, date le condizioni di cui sopra sembra essere anche l’unico modo per dare ragionevoli garanzie in termini di sviluppo economico, sociale ed ambientale sul medio-lungo termine.

L’Italia si trova oggi a dover affrontare una crisi economica particolarmente grave che ha investito alcuni settori cardine del sistema produttivo nazionale, come quello tessile e dell’automobile. Sembra esserci consenso intorno al fatto che le misure da prendere per superare tale crisi debbano essere di carattere strutturale, chiamando in causa una rinnovata politica industriale per il Paese che, in quanto tale, assuma orizzonti temporali più ampi. Per quanto detto sopra, mentre sarebbe possibile, anche se non desiderabile, promuovere interventi in termini di competitività non orientata alla sostenibilità che siano efficaci sul breve termine, non sembra altrettanto possibile che tali interventi abbiano su di essa effetti positivi sul medio e lungo periodo, dal momento in cui l’uso efficiente delle risorse e la capacità di limitare gli effetti negativi sull’ambiente diventeranno inevitabilmente un elemento premiante anche in termini strettamente economici.

  1. Le basi per la condotta strategica dell’impresa

Il rapporto tra sostenibilità e competitività non è univoco, sostanzialmente a causa della diversa natura dei due termini. Riprendendo i principi e la terminologia dell’economia ecologica, la sostenibilità è una proprietà che fa riferimento ai tre domini società, economia ed ambiente. Per potersi definire sostenibile lo sviluppo di un sistema richiede che la crescita complessiva del reddito, del patrimonio infrastrutturale e tecnologico, del capitale umano e sociale, mantenga gli input-output di materia ed energia da e verso l’ambiente entro i limiti della capacità portante del pianeta, senza erodere il capitale naturale e deteriorare quelli che abbiamo chiamato servizi ambientali.

La competitività è un parametro che attiene tipicamente agli equilibri interni del sistema economico globale. In linea di principio un sistema equilibrato garantisce migliori condizioni di equità ed è quindi più sostenibile. Ovviamente il sistema attuale è ben lungi dall’essere vicino all’equilibrio, permanendo grandi disparità circa l’accesso alle risorse, l’acquisizione dei diritti, la disponibilità di capitale umano e sociale. Una analisi della questione della competitività a livello globale deve tener conto dell’influenza che gli scambi economici hanno sul processo della sostenibilità e, in particolare, sul raggiungimento di un equilibrio globale capace di garantire a tutti un livello di benessere – inteso in senso più ampio della interpretazione strettamente economica – sufficiente e crescente.

Alla interpretazione, più o meno diffusa, basata unicamente sulla capacità di produrre a prezzi decrescenti, preferiamo l’idea di competitività come indice dinamico della qualità globale di una economia, come indice della capacità di produrre di più con meno risorse, di fornire servizi migliori, più scienza, più conoscenza, secondo la fortunata definizione del Consiglio di Lisbona[2]. Secondo tale visione la crescita economica e la competitività sono direttamente connesse alla capacità di accrescere il capitale umano e sociale garantendo la conservazione di quello naturale: in particolare si teorizza la presenza di un legame stretto tra occupazione e crescita economica che passa attraverso il paradigma della economia della conoscenza.

Così definita dalla Commissione Europea[3], parametro al quale viene prestata la massima attenzione oggi in Italia nel quadro delle analisi delle cause del declino del sistema economico. Questa rappresenta un sottoinsieme concettuale della interpretazione più ampia di Lisbona, e viene misurata in termini di performance relativa e di acquisizione di quote di mercato da parte del sistema imprenditoriale.

Qualità dei prodotti, dei servizi, prezzi di vendita ed efficienza della distribuzione e del management determinano la competitività delle imprese. Non è dunque il costo unitario di produzione dei beni e dei servizi il solo né il principale determinante di tale competitività.

È bene chiarire che il carattere relativo della competitività di impresa fa sì che essa vada rapportata senza confusione ai mercati di riferimento. Esiste un problema di competizione con i paesi emergenti che coinvolge tutto l’occidente ed è determinato dal dumping sociale, basso costo del lavoro, ostacoli alla sindacalizzazione, negazione dei diritti civili, e dal dumping ambientale, mancato rispetto di normative adeguate alla protezione dell’ambiente interno dei paesi emergenti e dell’ambiente globale. È un problema di equilibri planetari che trova le sue sedi di regolazione nel WTO e, per gli aspetti ambientali, nelle sedi del negoziato multilaterale, promosso essenzialmente dal sistema delle Nazioni Unite. Ovviamente nessuna strategia di intervento nazionale può pensare altresì di ignorare tali questioni globali quando queste influenzano direttamente la disponibilità interna di risorse, la capacità di affermarsi nell’economia globale ecc.

Non è comunque questo stato delle cose alla radice del declino italiano che, con dinamiche molto diverse, è determinato dal nostro deficit di qualità e competitività rispetto ai mercati occidentali. Qui le condizioni sociali della produzione sono comparabili e si gioca ad armi pari. Poiché non possiamo più praticare politiche di bassi salari né svalutare la moneta vengono alla luce i vizi storici della nostra imprenditoria, scarsa innovazione, errori nelle scelte strategiche, poca propensione alla ricerca nel settore privato, polverizzazione delle imprese, ritardi nelle trasformazioni imposta dalla globalizzazione dei mercati.

La stessa amministrazione pubblica è troppo spesso poco efficiente rispetto agli standard europei, si osservano sprechi, corruzione, conflittualità, ritardi tecnologici, cultura inadeguata etc. Abbiamo un sevizio sanitario pubblico di avanguardia, ma siamo stati gli ultimi a dotarci del sistema dei controlli ambientali; il sistema scolastico è prevalentemente pubblico ma, mal sostenuto e sottofinanziato, è in fase di arretramento, come la ricerca scientifica pubblica e le università. La gestione del territorio e il sistema dei trasporti sono fortemente penalizzati dalle perduranti asimmetrie Nord-Sud, dall’economia sommersa, dalla malavita organizzata.

La competitività del sistema Italia va dunque recuperata con un percorso di riforma dei settori pubblici e del sistema delle imprese che necessariamente dovrà essere durevole e sostenuto per tempi lunghi. Per ora è indispensabile invertire sollecitamente tutte le tendenze e tutti gli indici che determinano il declino.

  1. La responsabilità ambientale dell’impresa

L’approccio delle imprese alle questioni sociali ed ambientali sta subendo rapide trasformazioni determinate dalla penetrazione di queste tematiche nelle strategie di impresa e nei mercati. Una recente indagine OECD[4] che ha coinvolto 107 grandi imprese internazionali ha consentito di stilare una graduatoria di rilevanza tra i diversi strumenti di responsabilità di impresa ambientale e sociale (Corporate Responsibility) che si sono affermati nel mondo (Fig. 1).

Una parte di questi strumenti è apertamente indirizzata a promuovere e sostenere l’adesione delle imprese ai principi dello sviluppo sostenibile. È il caso del Global Compact, il primo forum globale chiamato ad affrontare gli aspetti più critici della globalizzazione. Annunciato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, al World Economic Forum di Davos, Svizzera, nel Gennaio 1999, e formalmente presentato al Quartier Generale delle Nazioni Unite nel Luglio 2000, il Global Compact invita le imprese ad aderire a nove principi universali nelle aree dei diritti umani, delle condizioni di lavoro e dell’ambiente. Il Compact si propone di avvicinare le aziende alle organizzazioni delle Nazioni Unite, alle organizzazioni internazionali del lavoro, alle organizzazioni non governative (NGO) e ad altri soggetti, al fine di incentivare la creazione di partnership e di costruire un mercato globale più inclusivo ed equo.

La Global Reporting Initiative, GRI, fondata nel 1997 dalla Coalition for Environmentally Responsible Economies (CERES) in partnership con UNEP, è promossa dalle imprese, da NGO, da sindacati, da organismi di certificazione, università, fondazioni, etc. La GRI è un’istituzione indipendente che ha lo scopo di sviluppare e promuovere linee guida per la redazione di bilanci di sostenibilità, applicabili a livello globale. L’adesione alle linee guida della GRI, pubblicate periodicamente, consente alle imprese di documentare il loro programma sociale, ambientale ed economico.

Lo standard internazionale di certificazione di responsabilità sociale (CSR) SA 8000 referenzia il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori e le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro Questa norma non nasce da parametri stabiliti da comitati di esperti. SA 8000 nasce dal CEPAA, emanazione del CEP (Council of Economic priorities), istituto statunitense fondato nel 1969 per fornire agli investitori ed ai consumatori, strumenti informativi per analizzare le performance sociali delle aziende. Il CEPAA ha per missione la responsabilità sociale, riunendo i principali stakeholder per sviluppare standard volontari basati sul consenso, accreditando organizzazioni qualificate per verificare la conformità, promuovendo la diffusione dello standard e incoraggiandone l’attuazione a livello mondiale. L’organismo riunisce 21 membri, in rappresentanza delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni non governative, di associazioni che tutelano i diritti umani e dell’infanzia, di imprese che investono in modo socialmente responsabile, dei società di certificazione.

Gli standard rilevanti per la responsabilità di impresa sono sostanzialmente di tre tipi. Le Dichiarazioni di politica ambientale (EPS) sono dichiarazioni delle imprese in merito ai propri principi e programmi in material ambientale che consente di definire il quadro d’azione ambientale con i relativi obiettivi e target. La dichiarazione deve comprendere riferimenti ai fornitori, ai partner, alle risorse, ai materiali, all’uso efficiente dell’energia, alle emissioni in aria, acqua e suolo, ai trasporti, alla minimizzazione/riciclo/riuso dei rifiuti, agli imballaggi, al progetto ed alla promozione dei prodotti, agli impatti sociali, alla formazione degli addetti, all’inquinamento acustico e luminoso, alla gestione degli edifici etc. Il 58% delle imprese censite pubblica qualche tipo di Dichiarazione di politica ambientale, il 69% in EU, il 62% in Asia-Pacifico e il 44% in USA, le differenze essendo determinate essenzialmente dalle imprese a scarso impatto ambientale, poco disponibili negli USA. Al contrario le imprese a grande impatto rilasciano dichiarazioni per il 78% nelle tre regioni.

I Rapporti di performance ambientale vengono rilasciati da un numero relativamente minore di imprese che pubblicano informazione sui propri impatti sull’ambiente. In assenza di standard condivisi a livello internazionale il contenuto di tali rapporti può variare da livelli molto rudimentali fino a rapporti di sostenibilità veri e propri. Il 39% delle imprese censite produce un rapporto di questo tipo, 50% in EU ed Asia-Pacifico e 17% in USA: quasi tutti (91%) questi rapporti contengono dati quantitativi che consentono il confronto tra imprese e la valutazione delle tendenze, il 67% delle volte mediante confronto con i target programmati. Soltanto un terzo dei rapporti vengono assoggettati a verifiche indipendenti, con una prevalenza delle aziende europee.

I Sistemi di gestione ambientale (EMS) sono costruiti su standard internazionali a larga diffusione. Alcune imprese optano per Sistemi di gestione auto-prodotti, adattati alle specifiche esigenze. Sono largamente più diffusi nei settori ad alto impatto ambientale, fino all’83% in EU e Asia-Pacifico. ISO 14001 si è affermato come lo standard di maggior successo mondiale: due terzi dei sistemi di gestione sono ISO 14001 o sistemi proprietari derivati. Il 72% degli EMS prevede un audit ambientale di impresa ed anche della catena dei fornitori. I sistemi di gestione della salute e della sicurezza sono meno standarsdizati dei corrispettivi ambientali ma sono in rapida diffusione, specialmente OHSAS 18001, uno standard ISO compatibile. Il 34% delle imprese europee si è dotata di tali sistemi contro il 15% in USA e il solo 9% in Asia-Pacifico.

  1. Gli stimoli provenienti dal contesto

Lo stakeholder engagement è da sempre un elemento cruciale nella performance di un’organizzazione. Le forma tradizionali di coinvolgimento, come ad esempio, il coinvolgimento dei soci, la partecipazione al voto, i roadshow degli investitori, il dialogo e la contrattazione coi dipendenti, sono stati da molto tempo istituzionalizzati attraverso politiche, norme e regolamenti. È attraverso questi approcci che le organizzazioni hanno finora reso conto ai propri stakeholder, coinvolgendoli nei successi dell’organizzazione.

Le sfide odierne ed il bisogno di raggiungere uno sviluppo sostenibile rendono ancora più urgente non solo impegnarsi nel dialogo con gli stakeholder prima ignorati, inclusi quelli cosiddetti “senza voce”, ma anche con quelli più noti, coi quali magari la relazione è più consolidata, su temi nuovi e con nuove modalità.

Questo è vero per le imprese commerciali che si apprestano ad entrare in nuovi mercati o ad affrontare sfide sociali nuove. E’ altresì vero per le Pubbliche Amministrazioni e le organizzazioni della società civile e del lavoro che stanno approcciando nuovi pubblici e modalità di servizio.

Gli imperativi stessi dello sviluppo sostenibile rafforzano il bisogno di coinvolgere gli stakeholder per la realizzazione di precisi obiettivi organizzativi, così come affrontare sfide sociali, ambientali ed economiche sempre più ampie come quelle del Millenium Development Goals. Queste mutate circostanze hanno rappresentato un terreno fertile per la sperimentazione di metodologie di stakeholder engagement, pratica che è alla base dei meccanismi di accountability, anche se – sfortunatamente – porta con sé sfide sempre nuove. La grande discrepanza nella qualità della pratica e nei risultati prodotti dalla sperimentazione può minacciare la credibilità dello stakeholder engagement stesso. Per superare questa criticità c’è bisogno di chiarire su quali basi si fonda uno stakeholder engagement di qualità.

AccountAbility crede fermamente che assicurare il diritto di essere ascoltati a coloro che sono influenzati o possono influenzare le attività di un’organizzazione e obbligare quest’ultima a farsi carico di queste aspettative, aiuti l’organizzazione ad agire meglio. Ne accresce la conoscenza e la legittimazione; i valori che sono affermati o creati dal dialogo rafforzano la sua reputazione e la sua statura etica. Perché ciò accada, tali diritti e doveri hanno bisogno di essere stabiliti e messi in pratica in modo credibile ed efficace.

4.1 Il ruolo degli environmental stakeholder

Gli stakeholder sono individui o gruppi che influenzano o sono influenzati da un’organizzazione e dalle sue attività.

Non c’è una lista generica di stakeholder che vada bene per tutte le imprese, o perfino per una singola impresa (cambieranno nel tempo) – la lista dei soggetti che influenzano e che sono influenzati dall’organizzazione dipende dal tipo di industria, dall’impresa, dalla geografia e dalla tematica in questione. Nuove strategie d’impresa e i cambiamenti nell’ambiente in cui essa stessa opera portano ad individuare una nuova combinazione di stakeholder. Il box qui sotto evidenzia alcuni dei gruppi più ampi di stakeholder tipicamente considerati.

C’è un numero di variabili diverse che potete considerare nell’identificare gli stakeholder:

  1. Per responsabilità: soggetti verso i quali avete, o in futuro potreste avere, responsabilità legali, finanziarie e operative formalizzate in regolamentazioni, contratti, politiche aziendali o codici di condotta.
  2. Per influenza: soggetti che sono, o in futuro potrebbero essere, in grado di influenzare la capacità della vostra organizzazione di raggiungere gli obiettivi – se le loro azioni sono probabilmente in grado di guidare o impedire la vostra performance. Possono includere sia coloro che hanno un’influenza informale sia coloro che hanno un formale potere decisionale.
  3. Per prossimità/vicinanza: soggetti con cui la vostra organizzazione interagisce maggiormente, inclusi gli stakeholder interni, quelli con cui instaurare relazioni durevoli, coloro da cui dipendete per l’operatività quotidiana e coloro che vivono vicino alla sede operativa.
  4. Per dipendenza: soggetti che maggiormente dipendono dalla vostra organizzazione, per esempio i dipendenti e le loro famiglie, i clienti che dipendono dai vostri prodotti per la loro sicurezza, sussistenza, salute o benessere o i fornitori per i quali siete un cliente principale.
  5. Per rappresentanza: soggetti a cui per ragioni di legge o di cultura/tradizioni è affidato il compito di rappresentare altri individui; ad esempio capi di comunità locali, rappresentanze sindacali, consiglieri, rappresentanti delle associazioni, etc.

4.2 La rilevanza dei fattori interni per un comportamento ecologicamente responsabile

Le questioni dibattute nel mondo delle imprese, su tutte le scale dal locale al globale, sono fondamentalmente:

  • come creare maggiore competitività attraverso l’innovazione e quindi attraverso l’innovazione ecologica;
  • come creare un più solido rapporto di fiducia tra aziende, clienti e società;
  • come sviluppare nuove opportunità di mercato, con grande attenzione ai paesi in via di sviluppo.

Molte compagnie hanno ormai fatto propria la convinzione che l’integrazione del valore della sostenibilità nel proprio marchio contribuisca al successo sul mercato.

Prodotti e servizi che rispondono alle esigenze di tutela dell’ambiente e di tutela sociale, attirano nuovi clienti solamente nel momento in cui tali esigenze risultano essere realmente acquisite entro la filosofia dell’impresa. Esempi recentissimi sono dati dai primi tentativi di modificare la propria immagine fatti da Nestlè e Nike. Se, a titolo esemplificativo, si analizzano le difficoltà di diffusione delle certificazioni ambientali e dei marchi di qualità, si osserva che l’acquisizione delle certificazioni che non vengono percepite dal cliente come convinte e concrete, non apportano alcun valore aggiunto all’azienda né producono vantaggi economici o commerciali. Non vi sono pertanto benefici apprezzabili se la nuova visione strategica e gli investimenti non diventano politica aziendale nel medio-lungo periodo. Sia le misure normative di tipo command and control, sia quelle di integrazione del fattore ambientale nelle politiche di settore, incidono in modo indiretto sul comportamento dei vari soggetti economici e sulla formazione dei prezzi, e, quindi, sulle decisioni concernenti il tipo e le quantità di beni e servizi offerti sul mercato[5].

Gli strumenti economici impattano direttamente sui meccanismi di costo delle imprese e, quindi, sulla formazione del prezzo attraverso:

  • la internalizzazione di quelli che vengono comunemente definiti costi esterni, mediante tariffe o tasse sull’inquinamento prodotto;
  • la negoziazione sul mercato delle autorizzazioni, come i permessi di emissione e gli obblighi negoziabili;
  • apposite garanzie per il rispetto di particolari clausole ambientali nella realizzazione degli obblighi contrattuali (es. depositi, obbligazioni o fideiussioni rimborsabili);
  • gli esborsi per la violazione di norme ambientali per compensare un danno prodotto direttamente alle parti danneggiate o tramite le autorità pubbliche (contravvenzioni, ammende o procedure di danno ambientale);
  • la assistenza finanziaria a inquinatori o utilizzatori di risorse naturali che si trovino in zone svantaggiate ed intendano raggiungere performance ambientali superiori agli obblighi di legge (es. sussidi);
  • gli interventi pubblicitari al fine di evitare distorsioni a favore di prodotti meno rispettosi dell’ambiente o semplicemente per ridurre la spinta a maggiori consumi;
  • i crediti agevolati a produzioni più rispettose dell’ambiente;
  • politiche internazionali di sostegno ai paesi che intendano applicare le misure sopra esemplificate.

Si consideri a titolo di esempio la Direttiva Europea 2003/87/EC sullo scambio delle quote di emissione[6]: uno strumento di tipo economico volto al raggiungimento di fini di tutela ambientale, ritenuto ad oggi uno dei più validi ed economicamente efficaci per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei gas ad effetto serra. Per le imprese, la Direttiva ha un impatto economico finanziario diretto sulle spese/investimenti in misure interne di riduzione e sull’acquisto di quote di emissione; un impatto sul valore dell’azienda stessa e sul valore delle azioni per le aziende quotate; un impatto sul costo dei finanziamenti e sulla gestione del rischio e, quindi, sulle coperture assicurative.

L’introduzione di misure flessibili di scambio di quote di inquinamento supera l’approccio command and control e viene salutata con molto entusiasmo. Tuttavia il ricorso a tali misure impone uno straordinario salto di qualità nei controlli amministrativi. Il sistema dei controlli va potenziato e reso più efficiente, richiedendo grande maturità da parte di tutti gli attori e capacità di comprensione delle modifiche continue dei sistemi economici, sociali ed ambientali e delle loro relazioni.

Le compagnie presenti sul mercato mondiale tendono a seguire le sollecitazioni di una clientela sempre più attenta alle questioni sociali ed ambientali per programmare e sviluppare nuovi prodotti e servizi. Le questioni messe in gioco dagli approcci della sostenibilità, dal punto di vista economico, sociale ed ambientale sono rappresentate in Fig. 2. In questo senso è interessante capire come le aziende stanno gestendo e quindi sfruttando, in termini di mercato, la crescente domanda di beni e servizi che rispondono a criteri di sostenibilità.

Nel 1999, la società di Industrial Management Consulting Arthur D. Little[7], in partnership con il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD)[8] ha svolto un’indagine su 80 aziende per valutare il loro approccio alla sostenibilità e identificare quali fossero le opportunità e gli ostacoli incontrati. Successivamente tra il 2004 e il 2005, in collaborazione con Hedstrom Associates, ha condotto una nuova indagine su 40 aziende globali in Europa, USA, Giappone ed Italia, appartenenti ai settori delle telecomunicazioni, della chimica, del sanitario farmaceutico e dell’energia, per evidenziare, se presenti, i cambiamenti avvenuti.

Il tema dell’indagine è stato l’opportunità di business veicolata dall’integrazione della sostenibilità nel processo di innovazione, cioè la c.d. innovazione ecologica. È emerso che la competizione sul mercato globale sta spingendo le aziende verso l’adozione di soluzioni alternative in termini di progettazione, produzione, logistica e distribuzione dei prodotti. In questo senso è interessante capire come le aziende stanno gestendo e quindi sfruttando, in termini di mercato, la crescente domanda di beni e servizi che risponde a criteri di sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

Infatti, si sta cominciando ad intravedere un significativo spostamento di strategia verso la sostenibilità da parte delle aziende leader.

Dall’indagine emerge che i principali benefici dell’innovazione ecologica sono:

  • l’identificazione di opportunità di business nuove ed inesplorate;
  • la maggiore attenzione alle esigenze della clientela sul lungo termine per rallentare il processo di obsolescenza dei prodotti/servizi;
  • la migrazione verso aree di business che, per definizione, hanno una maggiore longevità;
  • l’abilità di creare reali vantaggi sia per il business che per la società.

Inoltre le aziende possono essere vantaggiosamente identificate come entità positive, che raccolgono il consenso delle parti interessate (clienti, istituzioni, dipendenti etc.).

Il 95% delle aziende intervistate afferma che l’innovazione ecologica ha il potenziale per generare valore di business.

Tuttavia i maggiori benefici sono ancora percepiti in termine di immagine: reputazione e valore del marchio sono citati rispettivamente dal 90% e l’80% dalle aziende che pensano di avere già abbracciato i principi della sostenibilità nelle proprie attività. Il 60% di queste aziende ha registrato miglioramenti nella top line dei prodotti e il 43% ha potuto beneficiare di riduzioni di costo.

Non sorprende che fra le aziende che non hanno ancora adottato i principi di sostenibilità, poche vedano benefici in termini di quote di mercato, ricavi e margini.

Fra le aziende leader che ritengono di avere adottato tali principi, il 72% registra benefici per la creazione di nuovi prodotti e servizi, l’80% per l’innovazione dei processi e il 60% per l’accesso a nuovi mercati e per lo sviluppo di nuovi modelli di business (Figura 5).

In relazione ai benefici commerciali futuri, su un periodo di cinque anni, il 90% delle aziende ha risposto che tali benefici deriveranno dallo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Il 75% delle aziende ritiene che un ritorno economico significativo deriverà dallo sviluppo di nuovi mercati e nuovi modelli di business.

Nonostante ciò, molte aziende non sono in ancora grado di riconoscere il potenziale dell’innovazione ecologica, ovvero ritengono che questa concezione sia ancora troppo acerba per giustificare una concentrazione di sforzi e risorse, soprattutto economiche. Fra le barriere chiave identificate nell’indagine figurano:

  • la mancata comprensione del significato delle tendenze e dei determinanti della sostenibilità, dei mercati potenziali e delle opportunità;
  • un alto livello di scetticismo interno ed esterno all’azienda, accompagnato spesso dalla percezione che queste attività comportino alti livelli di incertezza e di rischio;
  • l’assenza di modelli di business adeguati, in particolare nei mercati emergenti;
  • la tendenza a utilizzare le risorse disponibili per affermarsi nei nuovi mercati con il modello tradizionale, anziché per sviluppare nuovi modelli di business od offerte di servizi che possano offrire maggiori benefici a lungo termine per effetto di una migliore risposta ai paradigmi della sostenibilità;
  • la mancanza di volontà di finanziare nuovi progetti, in particolare nelle fasi base del ciclo di vita dei prodotti.

Analogamente a quanto avviene normalmente quando si ha a che fare con tendenze emergenti, queste barriere sono percepite come quasi superate dalle aziende leader, mentre risultano ancora significative per le altre. In Italia i risultati dell’indagini sono allineati alle tendenze globali. Il 70% delle aziende ritiene che la soddisfazione delle preferenze del consumatore costituisca un determinante critico per l’Innovazione sostenibile.

L’orientamento dei futuri clienti ha un influsso maggiore sull’innovazione, specialmente per le aziende cui vengono richiesti più prodotti e più servizi che rispondano ai loro propri obiettivi di sostenibilità. Le aziende leader vedono la sostenibilità come un elemento chiave per aumentare la quota di mercato e conquistare questi clienti: esse ritengono che la sostenibilità continuerà a dominare nelle decisioni di acquisto di beni e servizi nel futuro.

Le aziende continuano a porre particolare enfasi sulla legislazione e, per il 70%, la rispondenza ai regolamenti di legge è da considerare elemento critico. Questo aspetto probabilmente deriva dall’arricchimento avvenuto negli ultimi anni di normative e leggi in materia ambientale e sociale, relativamente al controllo delle emissioni, alla sicurezza sul lavoro, agli standard di sicurezza dei prodotti etc.

Tuttavia le aziende ritengono legislativo che le regolamentazioni avranno una minore importanza nel futuro: solo il 63% infatti è convinta che nei prossimi cinque anni leggi e norme continueranno a rivestire grande importanza, probabilmente perché oggigiorno le aziende si sono dotate di strumenti per identificare e applicare meglio le normative vigenti. Gli altri temi ambientali e quelli sociali, invece, continueranno a essere determinanti importanti anche nel futuro. Una piccola minoranza di aziende ha integrato la sostenibilità nel processo di innovazione agendo su due dimensioni differenti:

  • la strategia di business;
  • la progettazione di prodotto e di processo.

Sulla prima dimensione, la strategia di business, Fig. 7, pochi leader nell’innovazione ecologica hanno già integrato la sostenibilità nella pianificazione strategica e nel processo decisionale relativo a futuri investimenti, sviluppo di prodotto, ecc. Tuttavia, la maggior parte delle aziende è ancora distante dalla meta, e meno del 35% ritiene di averla già raggiunta. Una quota minore del 5% delle aziende intervistate ha raggiunto l’integrazione su entrambi i fronti. La maggioranza delle aziende si è infatti concentrata solo su una delle due dimensioni citate. Alcune aziende hanno dato priorità ai temi sociali e ambientali nella progettazione di prodotto e di processo, ma devono ancora rafforzare l’integrazione nella strategia di impresa, esse possono essere considerate apprendisti per quanto concerne l’Innovazione sostenibile.

Al contrario, una forte integrazione nella strategia di business non accompagnata da una integrazione nella progettazione di prodotto e di processo può suggerire una millantata sostenibilità accompagnata da poche azioni concrete. La maggior parte delle aziende, in realtà, sta raggiungendo un equilibrio fra questi due aspetti, ma solo una minoranza ha già raggiunto una posizione di leadership con una forte integrazione sia nella strategia di impresa, sia nella progettazione di prodotto e di processo.

Sulla seconda dimensione (progettazione di prodotto e di processo, Figura 8) l’indagine ha riscontrato che la proporzione di aziende, che considera la sostenibilità alla pari di altri fattori nella progettazione di prodotto e di processo, ha raggiunto un valore superiore al 45%. Poche aziende leader sono passate da riduzioni migliorative dell’impronta ecologica delle proprie attività a riduzioni radicali nell’intero ciclo di vita.

La proporzione di aziende che sono passate dal grado di integrazione moderato al grado alto è aumentata solo del 9% tra le rilevazioni del ’99 e del 2004.

Poche aziende leader stanno già esplorando le opportunità offerte dall’innovazione ecologica. L’indagine ha rivelato che sul mercato stanno entrando prodotti e servizi promettenti sul fronte della sostenibilità.

France Telecom ha sviluppato strumenti per il lavoro a distanza in risposta alle crescenti pressioni sull’infrastruttura dei trasporti e sulla qualità dell’aria, accompagnate da un aumento nella proporzione di impiegati interessati al lavoro a distanza.

Le aziende più innovative si stanno muovendo verso la riduzione degli impatti derivanti dall’intero ciclo di vita delle proprie attività. Un esempio è rappresentato da Sony che ha sviluppato programmi per la riduzione del 50% dell’impatto ambientale del ciclo di vita dei propri prodotti (in percentuale delle vendite) fra il 2001 e il 2011: il programma ha contribuito a migliorare le performance di prodotti. Riducendo il consumo di energia dei prodotti portatili, è stata migliorata la performance delle batterie, così come la miniaturizzazione dei prodotti ha implicato un consumo minore di risorse a parità di performance.

Le aziende stanno registrando maggiori successi nell’integrare la sostenibilità nel design e nel funzionamento dei processi. Questo tipo di innovazione è piuttosto matura grazie al grande lavoro e agli sforzi effettuati nel corso degli anni ’90 per migliorare l’eco-efficienza dei processi. Un esempio è l’utilizzo delle tecnologie nel riciclo dei materiali di scarto. Ad esempio, ReCellular ha sviluppato un processo di precisione computerizzato che permette di utilizzare gli involucri di plastica già usati, ridipingendoli e rinnovandoli, riducendo così la necessità di plastica sostitutiva.

Numerosi altri esempi di Innovazione sostenibile sono riscontrabili nel settore dei servizi finanziari. In America Latina, nel 1999, è nata Bangente, prima e unica banca commerciale no profit in tutto il Venezuela, dedicata esclusivamente al microfinanziamento.

Tale banca è stata creata per offrire una risposta locale alle esigenze di finanziamento di un segmento in crescita, ma poco presidiato: gli imprenditori a basso reddito.

Vi sono infine sempre più esempi di aziende che cercano di aprire nuovi mercati attraverso lo sviluppo di nuovi modelli di business o attraverso l’applicazione di tecnologie esistenti o emergenti per nuovi e innovativi utilizzi. Il Gruppo Vodafone, ad esempio, in associazione con Safaricon in Kenya, sta valutando le modalità per utilizzare la tecnologia delle comunicazioni per aiutare le banche e le istituzioni di micro-finanza in aree remote[9].

4.3 Il ruolo della cultura aziendale

Il sistema industriale è la chiave dello sviluppo sostenibile su scala mondiale e nazionale.

Profonde trasformazioni sono in atto nel mondo con al centro il fenomeno della globalizzazione e l’emersione dei grandi paesi in via di sviluppo. Gli equilibri globali ne risultano profondamente mutati: quindi è più che mai importante che i cambiamenti vengano guidati e governati  in funzione dell’obiettivo generale dello sviluppo sostenibile. Parole chiave come impronta ecologica, economia delle risorse, dematerializzazione, rinnovabilità, eco-efficienza, disaccoppiamento tra crescita (economica) e degrado (ambientale), riduzione delle emissioni inquinanti, riduzione dei rifiuti, ecologia industriale sono etichette di un complesso di innumerevoli teorie, programmi, progetti che hanno un obiettivo in comune, far bastare le risorse naturali, arrestare il degrado dell’ambiente e consentire lo sviluppo umano in tutte le sue componenti: libertà, benessere, occupazione, ambiente, conoscenza, diritti.

L’Europa si è data una dimensione economico-sociale precisa ed ambiziosa con il programma del Consiglio europeo di Lisbona del 2000,  che prefigura una società basata sulla conoscenza, sulla piena e buona occupazione, sul pieno godimento dei diritti civili e dei diritti di accesso alla salute, alle risorse naturali ed alla qualità dell’ambiente, pur se la dimensione ambientale è stata innestata sul programma di Lisbona in tempi successivi, acquisendola entro la strategia europea per lo sviluppo sostenibile, costituita l’anno successivo al Consiglio di Goteborg.

Nonostante il rallentamento del processo di integrazione comunitaria degli ultimi anni, la cornice di Lisbona e di Goteborg è ancora il sogno europeo. Il nostro paese ha bisogno di tornare a credere in se stesso e di fissare obiettivi “alti” per lasciarsi alle spalle i fantasmi della recessione e le frustrazioni prodotte dai fallimenti del governo delle destre.

L’Italia attraversa una crisi duplice che ha una componente di natura mondiale, connessa alla sopravveniente scarsità delle risorse energetiche fossili ed alle trasformazioni del mercato mondiale determinate dalla globalizzazione, dalla delocalizzazione dei processi industriali in luoghi dove il costo del lavoro ed i diritti sindacali sono minori, dalla crisi economica dell’est europeo ed alla crescita impetuosa delle economie cino-indiane.

Sulla scala globale la situazione è più o meno comune a tutti i paesi membri dell’Unione, essendo le differenze essenzialmente legate alle specializzazioni produttive e commerciali delle diverse economie. Il sistema della moneta unica rende obbligatoria la ricerca di politiche e di soluzioni comuni entro l’Unione e unifica le dinamiche della competitizione, per ora,  essenzialmente rispetto agli universi nord-americano e giapponese.

La seconda crisi è di natura interna. Altrettanto delicata, ma certamente più stringente e preoccupante, riguarda la progressiva perdita di qualità industriale e di competitività entro il sistema degli equilibri intra-comunitari.

Questo tipo di crisi viene collegata alla perdita di margini di manovra delle politiche macroeconomiche per effetto del debito pubblico accumulato negli anni ‘80 e dal tramonto “del modello di sviluppo dei passati decenni, centrato sui sistemi di piccola impresa e sulla specializzazione nei settori tradizionali del made in Italy”, mascherato solo temporaneamente dalle politiche monetarie “di svalutazione e dal temporaneo rilancio delle esportazioni[10].

Ai più è apparsa adeguata la definizione di declino dell’economia italiana, testimoniata dall’arretramento degli indici economici e dall’impoverimento del capitale umano e sociale rispetto alle medie europee ed ai grandi paesi dell’Europa, Francia, Germania e Regno unito, ma anche Spagna.

  1. Le relazioni tra dimensione ambientale e dimensione economico-competitiva d’impresa

L’esame della storia recente dei distretti industriali, forma caratteristica di aggregazione della piccola impresa nel nostro paese, sembra mostrare l’esaurimento anche di questa spinta, che ha supportato l’economia italiana nel periodo della modernizzazione post-fordista. I distretti hanno spesso dimostrato capacità di stabilire efficaci rapporti tra imprenditoria,  territorio e amministrazioni locali, e talvolta la capacità di gestire adeguatamente la dimensione ambientale dei problemi, mettendo a comune parti dei processi di fine ciclo, i trasporti,  il marketing, l’uso delle risorse naturali locali. Si vuole che l’esperienza dei distretti sia una prima prova della fattibilità dei paradigmi dell’ecologia industriale. Ciò è vero solo in parte, poiché spesso il distretto si è organizzato sulle affinità dei processi piuttosto che sulla loro complementarità e sulla chiusura dei cicli. Tuttavia dal successo dell’innovazione praticata dai distretti si derivano alcuni insegnamenti indispensabili per guidare l’auspicata trasformazione dimensionale del sistema delle imprese.

La competitività industriale è definita come cardine della competitività di sistema.

La responsabilità di impresa (Corporate Responsibility) è la manifestazione di una presa d’atto del mondo imprenditoriale a livello internazionale dei problemi dello sviluppo sostenibile nelle dimensioni ambientale e sociale. Sono ormai molte le iniziative che testimoniano questo tipo di svolta. Un’inchiesta di parte terza mette in luce il punto di vista delle imprese analizzando gli elementi di questa trasformazione, in atto anche in Italia, sia pure con qualche ritardo.

Lo strumento della  fiscalità ecologica viene  analizzato in relazione al quadro complessivo delle politiche e delle misure in favore dello sviluppo sostenibile economico e sociale e della protezione dell’ambiente con riferimento alla situazione europea ed alle proposte comunitarie per l’innovazione. Vengono presentate le linee di orientamento per una riforma ecologica della fiscalità per l’Italia. La fiscalità ha un ruolo prioritario generale per modificare il modello attuale di produzione e consumo e per riavviare lo sviluppo all’interno delle direttrici della sostenibilità.

I dati e gli indici della competitività in Italia mettono in luce una fase di perdita progressiva e perdurante della qualità della nostra economia. I due indici di competitività del World Economic Forum, il BCI e il GCI,  denunciano nell’arco del triennio 2002-2004 una sorta di “corsa verso il fondo” dell’economia italiana[11] che, nel ranking di 104 paesi, scala di una quindicina di posizioni, tra il 40° ed il 50° posto. Si consideri che il rapporto sullo sviluppo umano dell’UNDP[12], la cui versione 2005 è stata resa pubblica in settembre, colloca l’Italia al 21° posto nel mondo. Si tratta come si vede, di posizionamenti ben lontani dai primi, tale essendo il rango che ci compete nel G8,  il gruppo dei primi otto paesi più industrializzati del mondo.

Posto che le origini del declino sono quelle indicate, è l’intero corpo sociale a portarne i segni. Il declino si determina infatti non solo a causa della perdita di competitività e di capacità di innovazione nei diversi settori della produzione, ma anche, sul piano sociale, dal degrado della qualità occupazionale, dalla precarietà giovanile, della fiducia ed, inevitabilmente, sul piano ambientale. Tutte queste tendenze sono state aggravate ed accelerate dall’amministrazione di centro destra, una amministrazione tardo liberista, ostile alle istanze  dei diritti umani e sociali, dichiaratamente ed attivamente eco-scettica.

La questione sociale più delicata è quella della occupazione. Richiamata negli obiettivi tra i diritti inalienabili degli europei, l’occupazione è associata a qualità come “piena” e “buona” ma in Italia  il disagio sociale cresce nel settore del lavoro, specialmente tra i giovani, le donne e, recentemente, nel settore dell’immigrazione. I differenziali Nord-Sud rimangono abnormi,  ma il fenomeno del lavoro nero e dell’economia sommersa è andato fuori controllo ed è una peculiarità essenzialmente italiana nel panorama europeo. I cambiamenti introdotti dal governo nei regimi contrattuali hanno introdotto molta precarietà ed incertezza nel futuro in nome della flessibilità. Le cifre della disoccupazione, calcolate nel nuovo regime, migliorano, ma le cifre dell’occupazione ed i differenziali salariali, regionali, e di genere peggiorano.

La dimensione sociale della competizione deve essere esaminata con attenzione particolare ai delicati processi di formazione del capitale umano e sociale ed all’allontanamento in atto nel paese dai target di quella che dovrà essere la società basata sulla conoscenza.

Le criticità ambientali gravi sono nel paese, come nel mondo industrializzato, determinate dal settore dei trasporti e dell’energia. Se si esamina la serie storica delle emissioni di anidride carbonica (Fig. 4) si vede che ci stiamo allontanando pesantemente dall’obiettivo di Kyoto (-6,5% rispetto al 90) per effetto dei trasporti e dell’energia. I settori industriale, edilizia ed agricoltura sono invece sostanzialmente vicini al target, ed avrebbero anzi conseguito l’obiettivo della stabilizzazione al 1990.

Sono settori nei quali si manifestano più direttamente gli effetti della mancata crescita, un certo grado di dematerializzazione  assieme a fenomeni come le delocalizzazioni delle lavorazioni industriali gravose in termini di forza lavoro e di risorse naturali, non ancora ben studiati dal punto di vista ambientale. Non vi è però dubbio che questi sono i settori dove hanno operato con maggiore efficacia  le politiche ambientali e le regolamentazioni e dove l’innovazione ha dato frutti benefici per l’ambiente.

Si osservino i dati degli abbattimenti delle emissioni inquinanti in atmosfera (Fig. 5), per alcuni aspetti confortanti,  ed i dati complessivi delle certificazioni ambientali e delle etichettature ecologiche (Fig. 6)  in rapida crescita in tutto il settore della produzione di beni e servizi con ritmi buoni, migliori delle medie europee.

Nelle tre dimensioni della sostenibilità la performance ambientale del comparto industriale sembra la più confortante. Al netto degli avvertimenti già dati va detto che in questo comparto si avvertono meglio i segni dell’innovazione e della modernizzazione ecologica, pressoché ferme entrambe nei settori energia e trasporti.

Per questo motivo, che fa del settore industriale un’area privilegiata per l’innovazione ecologica e le trasformazioni tecnologiche, va tratta in maniera privilegiata la questione delle tecnologie ambientali per lo sviluppo sostenibile a partire dalla visione europea del problema, avanzata in un recente documento indirizzato dal CESE, Comitato Economico e Sociale, alla Commissione, nel quale si afferma la coerenza tra gli interessi dello sviluppo e la diffusione di tecnologie e procedure ambientalmente favorevoli, al di la di superate visioni conflittuali che non hanno fatto altro che ritardare la modernizzazione dell’industria continentale.

Va dedicato un richiamo ai settori dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura che  hanno già intrapreso un modello di sviluppo interno favorevole ai principi della sostenibilità, certamente in nome delle “convenienze” della modernizzazione ecologica, ma anche per adesione soggettiva ed originale alle visioni dello sviluppo sostenibile.

Certamente tali tendenze vanno affermandosi in alcuni settori prima che in altri. Questo gruppo non costituisce certamente un club dal momento che questo tipo di scelte si va affermando in gran parte dei settori produttivi, pur con il proverbiale ritardo nel nostro paese. Sensibilità si evidenzia, ad esempio,  nel settore ICT, tra i provider di servizi telematici, nella manifattura e nella fornitura di servizi alle imprese ed al cittadino. Anche nel settore della amministrazione pubblica, in particolare nelle amministrazioni locali,  si fa strada per altro verso una sensibilità crescente agli obiettivi della sostenibilità.

Una dimostrazione di adesione viene dai patti volontari con imprese singole, distretti ed associazioni imprenditoriali. La stessa Confindustria ha ormai assunto un ruolo di riferimento per le politiche ambientali dell’amministrazione centrale e si pone, pur se con importanti contraddizioni,  come interlocutore effettivo nella discussione e nella ricerca del consenso sulle politiche di sostenibilità.

Va ora evidenziata la strumentazione per le politiche pubbliche per la protezione dell’ambiente e per lo sviluppo sostenibile. La derivazione europea di buona parte di queste procedure è tanto evidente quanto necessaria per il loro possibile successo.

Per l’innovazione dei processi industriali viene prodotta una scheda per la diffusione in Italia del Piano d’azione per le tecnologie ambientali (ETAP). Sul lato del consumo da tempo si sono introdotte le pratiche di etichettatura ambientale dei prodotti che ora trova riscontro in una cornice comunitaria coerente, la IPP, Politica integrata di prodotto, che definisce i paradigmi dell’innovazione ecologica dei prodotti e dei servizi nel quadro concettuale del cosiddetto life cycle thinking.

Di grande rilievo è il ruolo della pubblica amministrazione come consumatore. Tanto il consumo interno, energia, acqua, trasporti, quanto l’acquisto di beni e servizi da parte delle amministrazioni è ecologicamente inefficiente e, a conti fatti, fortemente foriero di sprechi e di diseconomie, alle quali va posto rimedio con una iniziativa nazionale in favore della committenza ecologica.

L’innovazione ecologica del sistema industriale segue due linee concettualmente diverse, entrambe indispensabili per lo sviluppo sostenibile.

La prima comporta l’adozione delle normative obbligatorie il rispetto delle regolamentazioni ambientali. La procedura di controllo integrato delle emissioni inquinanti è IPPC,  Integrated Pollution Prevention and Control. La procedura REACH, Registration, Evaluation, Authorisation and Restrictions of Chemicals è in corso di adozione per l’inventario, la registrazione e l’autorizzazione delle sostanze chimiche di produzione industriale.

La seconda via è, all’opposto, quella delle scelte volontarie di soluzioni innovative nella gestione delle imprese e nel marketing dei prodotti.  Volontaria è l’adesione al programma della qualità e la adozione dei Sistemi di Gestione Ambientale (SGA),  che procedono lungo due direttrici, le norme ISO, in particolare la ISO 14001, che provengono dal mondo anglosassone sotto forma di iniziative garantite dallo stesso sistema delle imprese e le certificazioni ambientali a standard europeo, EMAS, che prevedono l’autorizzazione da parte di un soggetto indipendente ed in Italia vengono gestite dal sistema pubblico. La promozione della qualità ambientale è affidata al sistema delle etichettature ecologiche, ecolabel, ed in particolare al marchio comunitario.

Lo Stato propone una serie di incentivi per diffondere questi tipi di procedure i cui effetti sull’ambiente e sulla sostenibilità sono determinate anzitutto dal fatto che le adozioni volontarie delle certificazioni e dei marchi richiedono che le aziende facciano ordine nella sequenza dei processi interni e ne programmino la riqualificazione ambientale. Non è infrequente che queste innovazioni diano luogo ad importanti economie di gestione da parte delle aziende. Le etichette di qualità energetica ed ambientale dei prodotti hanno incontrato il favore dei consumatori, favorevoli alla qualità ed alla innovazione ecologica genuina, garantita e certificata, se non comporta aggravi di spesa eccessivi non compensati da economie di esercizio chiare e dimostrabili.

  1. L’integrazione della variabile ambientale nel quadro della politica e delle strategie d’impresa

Un elemento considerato favorevole alla competitività di impresa è la produttività delle risorse, genericamente intesa come la quantità di prodotto generato da una data quantità di risorsa. Più specificamente, per quanto riguarda la risorsa umana, nella teoria economica si fa riferimento alla produttività del lavoro, misurata come quantità di ricchezza prodotta, in termini di valore aggiunto, per unità di lavoro riferita alla singola persona occupata o ad ora lavorata. Secondo la teoria corrente si ipotizza che un aumento della produttività del lavoro sia un fattore positivo in termini di competitività.

Gli effetti della produttività definita in termini di valore aggiunto sulla sostenibilità sono da considerarsi, tuttavia, ambigui. In particolare non si distingue tra una produzione di beni materiali che, se non rispettosa dei criteri di uso sostenibile[13], ha ripercussioni negative sul capitale naturale, dalla produzione, ad esempio, di determinati servizi a impatto ambientale contenuto, capaci di incrementare lo stock di capitale economico e sociale senza intaccare quello naturale; così come non si distingue tra tipologie di impiego rispettose dei diritti dei lavoratori, dei parametri di equità distributiva del reddito e così di seguito. Se non differenziata o non integrata da misure, ad esempio, di eco-efficienza o tutela dei diritti dei lavoratori, la produttività del lavoro non può essere considerata in quanto tale un parametro utile ai fini della sostenibilità. La stessa Commissione nel recente rapporto per il Consiglio di Primavera 2005[14], afferma che “la crescita della produttività e dell’occupazione devono andare di pari passo. Occorre evitare il tipo di crescita senza creazione di posti di lavoro che negli ultimi anni ha offuscato l’andamento dell’economia americana”.

La grossolana equazione, richiamata da molti, tra prezzi di mercato e competitività è stata definitivamente confutata nel 2000 a Lisbona. Essa sembra poggiare sull’idea di una economia fine a se stessa, un sistema che, se lasciato libero da vincoli, è in grado autonomamente di produrre una crescita indefinita della ricchezza e, attraverso un’altra discutibile equazione dalle rilevanti implicazioni etiche, del benessere individuale e sociale.

Su tali basi si costruisce un rapporto distorto tra economia e politica, ipotizzando una più o meno ampia sovrapposizione tra quello che dovrebbe essere il fine di quest’ultima – il benessere del cittadino – e l’accidentale prodotto della prima. Tutto ciò porta ad investire il sistema economico di un rilevante ruolo politico, lasciando allo Stato per lo più il compito di agevolare la libera crescita dell’economia: per far questo, in particolare, si rende necessario sgombrare il campo da tutto ciò che possa essere in contrasto con la necessità di produrre a prezzi più bassi e, quindi, con la capacità di competere con altre economie. Questo modello, oltre ad approssimare poco e male la realtà del presente così come quella del passato, poggia su una serie di assunti la cui correttezza negli ultimi due secoli è stata posta più volte in dubbio da studiosi di scienze economiche e sociali di tutto il mondo.

L’economia non può essere considerata un fine, ma uno strumento che la politica deve utilizzare in modo efficace per raggiungere i propri obiettivi. Tra questi il miglioramento del benessere individuale e collettivo ha un ruolo centrale: esso passa attraverso un incremento del capitale umano, sociale, ambientale ed economico di un paese. Si tratta di fattori che devono tutti fornire il proprio contributo positivo alla formazione del benessere individuale e collettivo dei cittadini: quindi anche l’economia, che deve crescere – non necessariamente o non solo intermini di PIL – compatibilmente con gli altri determinanti del benessere. È in quest’ambito che vanno esplorate le relazioni tra economia e politica, assegnando a quest’ultima il compito di orientare il mercato affinché il suo funzionamento sia in armonia con gli obiettivi politici di miglioramento del benessere.

Ogni proposta politica idealmente si distingue per la differente definizione di benessere di cui si fa portatrice: questa rappresenta il principale oggetto di scambio nell’acquisizione del consenso democratico. Tra gli strumenti di cui la politica dispone per intervenire sul sistema economico ci sono non solo quelli normativi in senso stretto, fatti di divieti e restrizioni, ma anche quelli che incidono, direttamente o meno, sulla formazione dei prezzi e, più in generale, sul funzionamento del sistema di mercato (incentivi, fiscalità, credito etc.). Ciò vale per qualsiasi economia di mercato, anche la più “liberista”.

Si può, quindi, ragionevolmente dedurre che sistemi o paesi, con obiettivi strategici (cioè definizioni di benessere) e strumenti di azione politica significativamente diversi tra di loro, si servano di meccanismi di formazione dei prezzi anch’essi differenti; questi, se messi in competizione tra di loro, potranno risultare a seconda dei casi più o meno favorevoli all’una o all’altra parte in termini di competitività di impresa.

I benefici delle politiche pubbliche, non solo di quelle ambientali, non possono essere espressi solo in termini economici e per di più in relazione alla competitività sui prezzi: le loro ricadute sono infatti molto più ampie. Come già detto l’economia è un elemento certamente rilevante per il benessere di un paese ma, secondo il paradigma dello sviluppo sostenibile, non è l’unico e non deve essere considerato quello preponderante. La stessa Commissione Europea nei sui documenti di settore (cit.) definisce, altresì, una competitività di natura diversa, misurandola in termini di andamento dei redditi, degli standard di vita e dei tassi di disoccupazione. Tale definizione sembra accordarsi meglio non solo alla visione strategica di Lisbona, ma allo stesso paradigma dello sviluppo sostenibile e, pertanto, verrà utilizzata nel seguito dei lavori. Va comunque notato che questa definizione, seppure più ampia e non direttamente connessa a quella dei prezzi relativi, rimane sostanzialmente ristretta alla sfera economico-occupazionale, misurando lo standard di vita in termini di PIL pro capite e livelli occupazionali. Avendo ora acquisito nuove e più precise definizioni torniamo alla fatidica domanda: politiche per la sostenibilità portano necessariamente ad una maggiore competitività secondo la definizione introdotta sopra? Si potrebbe pensare che in un sistema che si sviluppa in modo sostenibile sia indifferente la distribuzione degli incrementi/decrementi tra i diversi capitali fatto salvo, ovviamente, il bilancio complessivo, necessariamente positivo (visione debole della sostenibilità).

Tale approccio non tiene però conto dei legami che intercorrono tra i diversi domini di sistema. Sembra difficile immaginare, ad esempio, significativi miglioramenti ambientali e sociali associati al protrarsi di derivate negative nel dominio economico: banalmente politiche sociali ed ambientali hanno bisogno di una adeguata disponibilità di risorse economiche. È poi dimostrato che il degrado dei servizi ambientali non può essere compensato in nessun modo sia perché i costi di ripristino sono fortemente crescenti, sia perché alcuni servizi legati alla qualità dell’aria e dell’acqua e del territorio ed ad alcune risorse naturali sono irrinunciabili e pertanto insostituibili. Del pari è impensabile che apporti monetari possano compensare il degrado della ricchezza umana e sociale di una comunità.

In termini più generali le politiche di sostenibilità efficaci devono garantire uno sviluppo equilibrato e coordinato dei diversi fattori sociali ed economici coerentemente con i vincoli ambientali di sistema. Pertanto tali politiche dovranno essere capaci di garantire, tra l’altro, adeguati livelli di competitività, tali da non generare una erosione del capitale prodotto dall’uomo.

Da tutto ciò deriva che non è indifferente la qualità della crescita economica e, quindi, la qualità della competitività: essa deve essere tale da permettere un miglioramento umano e sociale mantenendo, o riportando, i livelli di input-output di materia ed energia del sistema entro i limiti della carrying capacity planetaria. Tale tipo di competitività si baserà non sui prezzi decrescenti, prodotti ad esempio esternalizzando costi sociali ed ambientali, ma sulla efficienza crescente nell’uso delle risorse, sulla capacità di produrre maggiore benessere attraverso la produzione di beni e servizi ad elevato valore sociale, e così via. In questi termini appare possibile, quindi, riconoscere un nesso positivo tra sostenibilità e competitività, non indifferente, però, alla qualità del modello di sviluppo.

  1. I progetti di innovazione tecnologica in campo ambientale

Nell’assegnare all’Unione Europea l’obiettivo estremamente ambizioso di diventare “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”, il Consiglio Europeo di Lisbona non aveva affatto focalizzato la sfida ambientali. Soltanto il termine “sostenibile” poteva forse richiamare la nozione di sviluppo sostenibile.

La stagnazione che ha colpito alcune economie dell’Unione ha indotto a dare precedenza assoluta alla crescita economica e alla creazione di posti di lavoro, mentre l’ambiente passava in secondo piano. Importanti settori dell’economia hanno contrastato la volontà dell’Unione, e in particolare della Commissione, di ergersi a modello di condotta ambientale sul piano internazionale, anche a rischio di ritrovarsi isolata nelle sue scelte.

Tali preoccupazioni e critiche non possono essere liquidate con leggerezza: esse non riguardano principi o politiche, bensì traducono la convinzione che vi sia un conflitto tra le esigenze della crescita economica e della creazione di posti di lavoro e le preoccupazioni ambientali, le quali danno luogo a una regolamentazione eccessiva tale da trascurare la realtà della concorrenza economica.

Così la volontà di applicare il Protocollo di Kyoto anche senza la ratifica dei principali concorrenti dell’Europa ha provocato forti reazioni in alcuni ambienti, che hanno visto in tale volontà una pericolosa forma di ingenuità capace di compromettere la competitività dell’economia europea, già alle prese con un’agguerrita concorrenza mondiale. Altri hanno invece ritenuto che gli obiettivi di Kyoto potessero contribuire alla razionalizzazione dei processi produttivi, alla diminuzione dei costi, alla riduzione delle pressioni gravanti sulle risorse energetiche e sulle materie prime, e di conseguenza al potenziamento della competitività europea. Le industrie che utilizzano sostanze chimiche hanno accolto con preoccupazione il proposto regolamento REACH per la registrazione, la valutazione e l’autorizzazione delle sostanze chimiche criticandone pesantemente il relativo studio d’impatto, presentato dalla Commissione. Alcune imprese dichiarano però che lo sviluppo sostenibile è un elemento di legittimazione dell’impresa nei confronti della società civile e una carta vincente nella concorrenza mondiale e in termini di attrattiva esercitata sugli investitori.

Il dibattito esiste dunque, ed è un dibattito forte, che attraversa la società intera e in primis il mondo economico e sociale e le organizzazioni ambientaliste. L’interrogativo è chiaro: l’integrazione delle considerazioni ambientali costituisce soltanto un ostacolo alla competitività delle imprese o può invece rappresentare un’opportunità per lo sviluppo di nuove professioni, nuovi mercati, nuove tecnologie?

Non bastano più i discorsi teorici e pieni di buoni sentimenti se non trovano applicazione pratica. Occorrono analisi precise ed esempi concreti. L’ambiente è un’opportunità per l’economia? Porsi questa domanda significa chiedersi se lo sviluppo di alcuni settori economici non sia condizionato dall’esistenza di un ambiente naturale o di un patrimonio di qualità e, dall’altro, se le tecnologie ambientali possano portare un contributo reale agli obiettivi dello sviluppo economico e sociale definiti dalla strategia di Lisbona. Significa inoltre chiedersi onestamente se le norme e i vincoli ambientali si riducano a un mero ostacolo alla crescita economica, alla competitività e quindi all’occupazione.

Le attività del turismo e del tempo libero sono manifestamente legate all’esistenza di un ambiente di qualità. Lo sviluppo economico e sociale di intere regioni, se non addirittura di interi Stati d’Europa, dipende in larga misura dal turismo. La qualità dell’ambiente è un presupposto indispensabile per l’equilibrio delle società in questione. Nei paesi deturpati, nelle città devastate da una speculazione immobiliare selvaggia, il deterioramento dell’ambiente naturale e l’inquinamento del mare provocano disastri economici irrimediabili. Altrettanto vale per settori come la pesca, l’agricoltura e persino la caccia. Va infine ricordato che il turismo dà un contributo rilevante all’equilibrio della bilancia dei pagamenti di numerosi Stati membri, che esso crea posti di lavoro ed è un’attività che, per sua stessa natura, non può essere delocalizzato.

Per quanto riguarda le eco-tecnologie, gioverà chiedersi se possano essere un fattore di crescita e di innovazione e, in caso affermativo, trovare il modo di incoraggiarne lo sviluppo e la diffusione senza falsare il gioco della concorrenza in maniera ingiustificata. Di fronte alla legittima aspirazione delle popolazioni dei paesi emergenti ad accedere a un tenore di vita paragonabile al nostro, e considerate le pressioni che verrebbero a gravare sulle risorse naturali e l’ambiente se lo sviluppo di questi paesi avvenisse nelle condizioni tecniche ed economiche attuali, appare necessaria una vera e propria rivoluzione tecnologica. L’80 % della popolazione del pianeta aspira al tenore di vita di cui oggi gode solo il 20 % più ricco della popolazione mondiale. È quindi impensabile continuare a vivere nelle condizioni attuali poiché ciò si rivelerebbe catastrofico.

Gli interventi adottati per ovviare ai danni ambientali, ad esempio quelli volti a ridurre al minimo le piogge acide attraverso tecniche di eliminazione dello zolfo, hanno contribuito in modo significativo a evitare la scomparsa delle foreste europee. Se è naturale pensare alle tecniche di produzione industriale, occorre però sottolineare che le tecniche di produzione agricola, i trasporti e i processi di produzione dell’energia hanno un impatto tutt’altro che trascurabile sull’ambiente e sulla salute pubblica.

L’evoluzione e le trasformazioni delle scienze e delle tecniche comportano necessariamente delle conseguenze sociali. Quanto vale per le innovazioni in generale vale anche per le tecnologie ambientali, in particolare se destinate a sostituire tecnologie tradizionali ben collaudate, ma poco rispettose dell’ambiente.

La tutela dell’ambiente non deve apparire come un fattore che va ad aggravare la disoccupazione e la deindustrializzazione. Siamo quindi di fronte a una vera e propria sfida tecnologica. Grazie alle sue capacità scientifiche e tecniche, l’Europa può svolgere un ruolo d’avanguardia nella messa a punto di innovazioni ambientali di vasta portata. Certamente la tutela dell’ambiente ha un costo, ma il costo dell’azione è inferiore al costo dell’inazione.

Si possono distinguere quattro tipi di tecnologie ambientali:

  • le tecnologie di fine processo,
  • le tecnologie integrate,
  • le tecnologie avanzate;
  • le innovazioni radicali (come ad esempio la chimica senza cloro).

A lungo termine le tecnologie integrate e radicali possano offrire vantaggi competitivi. La difficoltà sta nel fatto che in mercati altamente competitivi non sempre le imprese hanno la possibilità di operare scelte di lungo periodo. Propenderanno piuttosto per processi graduali, che assicurano però una diffusione su larga scala dei miglioramenti ambientali nel quadro dei loro cicli abituali d’investimenti. Tuttavia la crescita economica, in particolare nei paesi emergenti, è tale per cui, malgrado i progressi tecnologici, la pressione sull’ambiente e le risorse naturali continua ad aumentare.

Nel corso degli ultimi trent’anni il miglior garante del futuro di un’impresa e, in ultima analisi, degli interessi dei suoi azionisti, è stata la sua capacità di innovare e garantire la qualità dei propri prodotti e processi produttivi nei confronti dei clienti, dell’ambiente e dei dipendenti. Ancor prima dell’adozione delle normative ambientali, un numero crescente di imprese si è impegnato a favore dello sviluppo sostenibile, decidendo di rendere pubblicamente conto delle proprie iniziative e risultati in questo settore e facendolo sotto lo sguardo sempre più attento dei clienti, della società civile, dei mercati e dell’opinione pubblica. Nel contesto di forte competitività creato dalla globalizzazione dell’economia, anche la qualità dell’ambiente e l’equilibrio sociale sono diventati fattori determinanti per attirare e conservare risorse umane e capitali.

Gli imperativi ambientali non sono quindi in generale un ostacolo alla competitività e allo sviluppo economico, come si afferma con troppa facilità da talune parti. Il mercato ha già risposto a numerose sfide ambientali poste dalla legislazione, come testimoniano i requisiti introdotti in materia di qualità dell’acqua e di trattamento dei rifiuti. In questi due settori le tecnologie ambientali conoscono una crescita sostenuta. Fornendo una risposta economica a tali sfide, le imprese di servizi di tipo ambientale hanno creato e conservato posti di lavoro. La ricerca del risparmio delle risorse naturali si è tradotta in tutta una serie di innovazioni tecniche che vanno nel senso di una gestione più parsimoniosa e di una riduzione dei costi. Gli obiettivi ambientali possono essere in contraddizione tra loro: così ad esempio la costruzione di campi eolici può essere in contrasto con la protezione della qualità del paesaggio e dell’ambiente. È inoltre indispensabile che le norme ambientali obbediscano al principio di proporzionalità. Bisogna infatti evitare che il costo economico di una normativa sia sproporzionato rispetto ai benefici socio-ambientali previsti. Parallelamente, le procedure di attuazione della legislazione devono essere accessibili a tutte le parti. Di fatto, in un mercato fortemente competitivo l’introduzione delle ecotecnologie non può che avvenire in modo progressivo e continuativo.

Le industrie manifatturiere, metallurgiche, chimiche, cartarie, della pasta da carta e cellulosa, ecc., devono misurarsi con una concorrenza globale particolarmente temibile e hanno un’interazione particolarmente stretta con l’ambiente. Stando a studi comparativi, le unità produttive di questi comparti sono in genere molto efficienti sotto il profilo ambientale, in quanto il loro impiego di materie prime e di energia e le loro emissioni sono ridotti ai minimi consentiti dalla tecnologia. In effetti, la legislazione ambientale cui sono soggette è la più rigorosa al mondo. D’altro canto, migliori risultati ambientali possono essere realizzati progressivamente, investendo nelle tecnologie più recenti e più efficienti, il che a sua volta presuppone che queste imprese siano competitive sul mercato globale. È indispensabile che migliori risultati in termini ambientali vengano richiesti in funzione dello sviluppo della tecnica e dei cicli degli investimenti di ciascun comparto. Infatti, introducendo disposizioni severe troppo presto si rischia di compromettere la competitività e quindi il proseguimento dell’attività, a causa dei costi aggiuntivi o dell’assenza di tecnologie effettivamente applicabili.

Le tecnologie innovative concepite fin dall’inizio in modo da combinare le preoccupazioni ambientali con il minor uso delle risorse, diversamente dalle tecnologie di risposta, destinate a rimediare agli effetti dell’inquinamento, sono in molti casi ancora in fase di sperimentazione. Occorrono dunque strumenti atti ad affrontare una varietà di situazioni sul piano sia dei finanziamenti che dello scambio di informazioni; servono inoltre strumenti legislativi e fiscali. Bisogna altresì tener presente la necessità di agire con grande discernimento, individuando le eco tecnologie veramente promettenti per evitare sprechi nei finanziamenti. I diversi strumenti finanziari, fiscali e normativi contemplabili corrispondono di fatto a diverse tappe nell’attuazione delle eco-tecnologie innovative: gli aiuti alla ricerca, gli studi di fattibilità, gli incubatori di imprese, il capitale di rischio per la fase di avviamento, i prestiti agevolati o classici per la fase di sviluppo, gli incentivi fiscali per il consolidamento del mercato, le eco-tasse come deterrente all’utilizzo di tecniche poco rispettose dell’ambiente, quando si dispone di tecniche alternative, e al fine di contribuire alla ricerca ambientale.

Vanno inoltre sviluppate le reti di scambio e di informazione sulle migliori pratiche e sulle nuove tecnologie. Si tratta di un aspetto particolarmente importante sia per gli imprenditori che per i responsabili degli enti pubblici, che hanno bisogno di un ausilio valido ed efficace per il processo decisionale onde scegliere con cognizione di causa tra tecniche tradizionali e collaudate, e dunque rassicuranti, e tecniche nuove, più rispettose dell’ambiente ma meno note e meno testate. Questo assume un’importanza particolare se si deve fare degli appalti, in particolare pubblici, uno strumento di diffusione e sviluppo delle eco-tecnologie. Alcune imprese hanno già introdotto il rispetto dello sviluppo sostenibile nell’elenco dei criteri di selezione dei fornitori, adottando, appunto in materia di sviluppo sostenibile, clausole standard che vengono progressivamente integrate nei contratti con i fornitori. Hanno inoltre messo a punto corsi di formazione per educare allo sviluppo sostenibile i loro uffici acquisti.

È infine necessario utilizzare l’etichettatura ecologica e tutti i sistemi di premi e ricompense per valorizzare e promuovere l’uso delle eco-tecnologie e creare un vero e proprio mercato.

È chiaro che se le tecnologie ambientali consentiranno effettivamente di ridurre i costi di produzione grazie ad un minore consumo di energia e di materie prime, migliorare l’immagine dell’impresa e dei suoi prodotti, aumentare le vendite e ridurre i costi ambientali, esse attireranno l’interesse delle imprese, che allora ne garantiranno lo sviluppo. Ma per far ciò bisogna che le imprese le conoscano e siano in grado di apprezzarne l’efficacia attraverso una vera rete di informazione e di scambio sulle migliori pratiche e sulle tecnologie ecologiche, cui potrebbero essere associate le amministrazioni pubbliche, le associazioni professionali, i centri tecnici e i centri di ricerca.

Se la mobilitazione degli imprenditori e dei professionisti è una necessità, quella dei clienti e dei consumatori lo è altrettanto: senza di loro non vi è infatti un mercato. Le eco-tecnologie devono dunque apparire efficaci al grande pubblico dal punto di vista sia della tutela dell’ambiente che della produzione, altrimenti resteranno un elemento marginale, dello sviluppo economico. Allo stesso modo, le conseguenze sociali delle norme ambientali e dell’introduzione delle nuove tecnologie vanno anticipate prevedendo una formazione professionale che consenta al personale che dovrà applicarle di farlo nelle migliori condizioni senza rischiare il posto di lavoro. Grazie alle sue specifiche competenze nel settore delle ecotecnologie, l’Unione europea può diventare un partner privilegiato dei paesi emergenti e approfittare dell’opportunità di aprirsi nuovi mercati.


[1] Special EUROBAROMETER n° 215 “Lisbon” e 217 “Attitudes of European citizens towards the environment”.

[2] Nel marzo del 2000, a Lisbona, l’Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: “…diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale …”.

[3] EU Competitiveness Report 2001.

[4] OECD; “Overview of Corporate Environmental Management Practices”; Parigi; Giugno 2004.

[5] Francesco La Camera; “Sviluppo Sostenibile”; Editori Riuniti; 2005; § 5.3. “Integrazione del fattore ambientale nei mercati –gli strumenti economici”; pag. 465 e sg.

[6] Un tipo di permessi all’inquinamento, una sorta di diritto ad inquinare in quantità definite dai permessi stessi. L’OECD distingue quattro tipi di permessi trasferibili: l’esemplificazione più significativa di tali meccanismi flessibili è sicuramente quella del protocollo di Kyoto. OECD, “Sustainable Development – Critical Issues”; Paris; 2001; pag.146.

[7] Arthur D. Little; “How Leading Companies are using sustainability-driven innovation to win tomorrow’s costumers” Arthur D. Little; 2005.

[8] WBCSD, HrH The Prince of Wales’s, University of Cambridge – Programe for Industries; “Marketing and Sustainable Development”; 2005

[9] Fonte Vodafone, 2004 pers. com.

[10] Carlo Trigilia; 2005; ”Sviluppo locale”; Laterza

[11] Carlo Trigilia; 2005; ”Sviluppo locale”; Laterza UNDP.

[12] United Nations Development Programme; “HDR, Human Development Report 2005

[13] Si fa qui riferimento ai principi proposti da H. Daly che definiscono le condizioni di sostenibilità per i

tassi di sfruttamento delle risorse rinnovabili e non.

[14] EU EC Spring Report 2005 COM(2005) 24.

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