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Il Trust in Italia

  1. Il problema della fiducia nella dottrina e nella giurisprudenza italiana.

In Italia il problema della fiducia è stato per lungo tempo dibattuto in dottrina sia prima che dopo la codificazione del 1942. E proprio a tale proposito è opportuno esaminare la possibilità di adoperarlo anche nel nostro ordinamento giuridico.

Il trust, infatti, è un istituto che fonda le sue origini nella particolare struttura degli ordinamenti di common law, totalmente diversi da quelli di civil law. Oggi, il problema del riconoscimento del trust in ordinamenti civilistici, è regolato dalla Convenzione dell’Aja del 1985 alla quale ha aderito anche l’Italia. Ritornando al problema dell’inquadramento della fiducia va detto preliminarmente che il termine “fiducia” è impiegato per indicare due diversi fenomeni[1]:

  • una determinata specie di proprietà, definita come “proprietà fiduciaria”, poiché la possibilità di godere e di disporre di un dato bene sono attribuite al proprietario per soddisfare non un interesse proprio, ma un interesse altrui.
  • una specie contrattuale, definita come “negozio fiduciario”, poiché la proprietà di un bene viene trasferita da un soggetto ad un altro con il patto (pactum fiduciae) che il secondo la utilizzi per un dato fine, raggiunto il quale deve ritrasferire il bene al primo.

La proprietà fiduciaria, quando può essere applicata in contesti di civil law, non necessariamente trae origine da un negozio fiduciario; il contratto fiduciario, non produce, di regola, l’effetto costitutivo di una proprietà fiduciaria[2].

Si deduce che non si può propriamente parlare di proprietà quando il bene destinato a soddisfare un interesse altrui sia oggetto di un rapporto obbligatorio tra il titolare dell’interesse e il proprietario del bene, come tale inopponibile ai terzi creditori e ai suoi aventi causa[3].

In Italia, come tutti i sistemi di civil law, la proprietà fiduciaria non può derivare dall’autonomia contrattuale[4].

Forme di proprietà fiduciaria sono previste sia nelle “società fiduciarie”, regolate da leggi speciali, in cui assumono l’amministrazione di titoli per conto di terzi. La società che amministra i titoli diventa intestataria a proprio nome, ma nello stesso tempo l’affidante rimane l’effettivo titolare degli stessi; sia nelle “società di gestione dei fondi comuni di investimento mobiliare”. Gli investitori mantengono la proprietà dei titoli che costituiscono il fondo comune, ma di quest’ultimi risulta intestataria la società di gestione poiché li amministra e ne dispone.

Infine sono altresì previste nella “fondazione fiduciaria”, costituita per atto tra vivi o a causa di morte, con la quale il disponente trasferisce la proprietà dei beni ad uno o più soggetti e tuttavia sui beni è previsto un vincolo di destinazione che limita le loro facoltà di godimento e di disposizione in modo permanente infatti tale vincolo grava su tutti i successivi proprietari del bene[5].

Qui emergono delle peculiarità: l’interesse altrui deve riguardare un fine di pubblica utilità, il cui onere di perseguimento deve essere assolto dal proprietario fiduciario. Tale figura può essere accostata alla tipologia dei charitable trusts che in common law sono utilizzati per realizzare scopi, simili a quelli che nel nostro ordinamento assolvono, di regola, le fondazioni. Ebbene, il problema giuridico della fiducia si pose in Italia già alla fine dall’Ottocento[6].

Il dibattito riguardava la questione relativa all’ammissibilità nel nostro ordinamento dei due principali casi di negozio giuridico la fiducia cum amico (Tizio trasferisce a Caio la proprietà di un bene, con l’intesa che Caio lo amministrerà secondo le istruzione di Tizio o che Caio venda, a sua volta a Sempronio)[7] e la fiducia cum creditore (quando il contratto fiduciario intercorre tra creditore e debitore: il primo vende al secondo un bene con a patto che all’estinzione del debito, il creditore rivenderà il bene al debitore)[8].

La problematica iniziale viene ripresa dalla dottrina tedesca[9], la quale considera il negozio fiduciario solo quando la causa del contratto ecceda lo scopo effettivo perseguito. Tale eccesso risulterebbe dal patto intercorso trai contraenti figurante quale clausola oppure formante oggetto di una separata scrittura, prevista al fine di riportare il contratto entro i limiti dello scopo perseguito dai contraenti[10]. Secondo tale impostazione il negozio fiduciario sarebbe da considerare quale negozio atipico con effetti reali e fondato sulla causa fiduciae[11] .

La causa fiducie non sarebbe stata idonea a determinare il trasferimento della proprietà di un bene[12] perché troppo generica per sostenere la legittimità di una operazione atipica. La fiducia “romanistica” , infine, avrebbe dato luogo ad una vera e propria forma di proprietà, la cosiddetta proprietà fiduciaria.

Di parere opposto sembra essere Grassetti[13] del negozio fiduciario di tipo “romanistica” che sostenne la teoria  per la quale le parti posso dar luogo a negozi atipici anche con efficacia reale in base al principio generale dell’autonomia contrattuale (art. 1322, comma 2, c.c. l’ammissibilità del negozio fiduciario all’interno dell’ordinamento giuridico italiano fu sostenuta anche da altra parte della dottrina la quale afronta il problema in modo diverso[14]. In questa prospettiva l’ammissibilità del negozio fiduciario sarebbe possibile solo considerando un collegamento funzionale tra due negozi[15]: l’uno tipico ad effetti reali, l’altro, il pactum fiduciae, ad effetti esclusivamente obbligatori[16].

Le impostazioni tendenti ad affermare l’ammissibilità del negozio giudiziario furono condivise dalla Cassazione in numerose sentenze[17].

Un problema molto discusso in dottrina e l’individuazione e i criteri da seguire nella distinzione tra il negozio fiduciario e le altre figure giuridiche quali il mandato, il negozio simulato e la donazione indiretta dall’altro. La distinzione tra mandato e fiducia  che si concretizza sul criterio in base al quale si avrebbe fiducia nelle operazioni  complesse destinate a durare nel tempo e mandato invece quando si rata di uno o più atti determinati appare molto evanescente. Appare altrettanto poco chiara anche la Cassazione che nelle ultime sentente emanate si è dimostrata contraddittoria[18]. Altro problema molto discusso è la distinzione tra simulazione e fiducia. La Cassazione ripete la regola che il negozio fiduciario è realmente voluto per raggiungere gli scopi che le parti si prefiggono mentre il negozio simulato e solo apparente[19]. Per quanto riguarda la distinzione tra fiducia ed interposizione fittizia da un lato, e donazione indiretta dall’altro l’esistenza di un pactum fiduciaie dovrebbe essere sufficiente  fondare l’esistenza di un negozio fiduciario, mentre per la donazione dovrebbe sempre provarsi l’intenzione di una attribuzione a scopo di liberalità[20].

  1. L’impatto della Convenzione dell’Aja sull’ordinamento giuridico italiano.

La Convenzione all’interno dell’ordinamento ha prodotto ha prodotto effetti senza dubbio rilevanti. In primo logo si è superata l’estraneità totale del trust rispetto all’ordinamento italiano. Il legislatore italiano, inoltre,  ha inteso assicurare una piena ed intera esecuzione alla Convenzione risolvendo in questo modo numerose problematiche che precedentemente venivano risolte attraverso sforzi ermeneutici diretti a dilatare istituti per individuare quella norma che prova essere applicata anche ai trust. Si può dedurre che per effetto della Convenzione ratificata un italiano, o un semplice residente, può oggi costituire un trust e, soprattutto, può ottenere tutela dall’autorità giudiziaria per la difesa dei propri diritti nascenti dai trust. Di conseguenza l’approvazione di una legge italiana che disciplina i trust potrebbe consentire non tanto di rendere legittima la costituzione, quanto di permettere che questi sottopongano il trust alla propria legge nazionale. Dalla Convenzione deriva inoltre l’acquisizione della normativa senza limiti poiché l’Italia non ha optato per la riserva prevista dall’art. 21.

  1. Il riconoscimento del trust in Italia.

La nostra tradizione giuridica ha conosciuto l’istituto descritto nell’art. 2 della Convenzione, sebbene nella nostra esperienza esso non abbia assunto il carattere di figura generale. Tuttora però l’art. 627 del codice civile regola le disposizione fiduciarie che si ricollegano a quella grande esperienza[21].

Non va dimenticato che, al di là di questo preciso riferimento, denso di significato storico, il nostro diritto vigente conosce altre ipotesi che vanno senz’altro ricondotte alla figura descritta nell’articolo 2 della Convenzione, esse non si identificano tout court con i trust noti nei paesi di common law[22]. Si ricorda che la dottrina italiana in tema di negozio fiduciario, da Grassetti[23]  a Lipari[24], fino a Jaeger e oltre[25] , ha preso in considerazione il trust come figura appartenente al medesimo campo di fenomeni in cui si colloca il negozio fiduciario, ed ha saputo trarre proprio dalla disciplina del trust molti elementi  necessari per sviluppare la teoria del negozio fiduciario. In virtù di tali considerazioni si è ritenuto che, non è esatto affermare che il trust “non appartiene alla tradizione del diritto italiano”. Quello che non appartiene alla tradizione del diritto italiano sono in primo luogo le nozioni con cui i giuristi appartenenti al mondo di common law descrivono e analizzano il trust.

E’ stato anche obiettato che, l’art. 13 appare come una norma che richiede una apposita disposizione di adattamento ordinario, che nel caso dell’Italia non è stata emanata, con la conseguenza che non si sono prodotte nell’ordinamento le modifiche necessarie per permettere il riconoscimento dei trust interni.[26] L’obiezione riprende la tesi  secondo la quale l’art. 13, avendo il carattere di norma non self-executing, necessiterebbe di apposite disposizioni di adattamento ordinario, per essere esecutiva in Italia. La dottrina maggioritaria[27] e le altre pronunce giurisprudenziali che hanno preso posizione sul punto[28] ritengono che l’art. 13 sia rivolto ai giudici (secondo quanto indicato anche nei citati lavori preparatori), e che attribuisca loro il potere di non riconoscere un trust interno solo in presenza di valide e forti ragioni, che vanno al di là del rilievo sommario secondo cui il trust, entrerebbe in conflitto con la libertà di scelta prevista all’art. 6 della Convenzione (che è il cardine della Convenzione).

L’art. 13 viene dunque correntemente interpretato come “norma di chiusura”, la quale consente al giudice di non riconoscere il trust regolato da legge straniera nel caso in cui, realizzi un “abuso di diritto”, venga utilizzato “in frode alla legge”, o comunque realizzi effetti valutati dal giudice ripugnanti all’ordinamento in cui dovrebbe essere riconosciuto[29].

  1. Struttura funzione e figure del trustee.

Il trustee costituisce il centro del trust, nel trustee si evidenziano quegli aspetti di “fede, fiducia, affidamento, confidenza” che, fin dalle origini storiche, fin nella etimologia, caratterizzano il trust. Il trustee è l’unico soggetto necessario del trust: infatti può mancare il disponente come nei constructive e resulting trust, può mancare il beneficiario come nei charitable trust o nei trust di scopo, ma non può mai mancare il trustee. È evidente come la fiducia riposta nel trustee sia una componente essenziale del trust che deve sussistere, anche se con caratteristiche diverse, sia con riferimento al trustee persona fisica, sia con riferimento al trustee persona giuridica.

Da un punto di vista generale si può affermare che, attraverso la istituzione di un trust e l’affidamento ad un trustee, si può perseguire la realizzazione di finalità meritevoli di tutela per le quali il nostro ordinamento non prevede soluzioni idonee. La dottrina prevalente costruisce il trustee come titolare di un ufficio di diritto privato nel quale coesistono i concetti di potere e di dovere con la funzione di svolgere determinate attività per soddisfare determinati interessi. Il trustee è il soggetto destinatario dell’obbligazione di attuare la finalità del trust per mezzo delle posizioni soggettive affidategli. Il trustee è titolare dei beni; è il soggetto cui fa capo una posizione soggettiva vincolata, le formalità pubblicitarie avvengono al nome del trustee. Ma la posizione del trustee può essere estremamente varia: dai trust nudi, ai trust discrezionali, ai trust auto-dichiarati; a poteri più o meno estesi; all’esistenza o meno del controllo di un guardiano o di lettere di desiderio; alla facoltà di identificare i beneficiarî attribuita al trustee, ecc. Le obbligazioni del trustee sono nei confronti dei beneficiari; egli non può trarre vantaggi personali dal trust; deve improntare la sua condotta alla massima buona fede, deve tenere i beni del trust distinti dai propri; deve fornire rendiconti. I suoi poteri possono essere determinati dal disponente secondo il caso concreto. I beneficiari sono titolari di diritti o di aspettative nei confronti del trustee; possono essere prefissati o determinati dal trustee. Non hanno alcun rapporto proprietario coi beni quando agiscono nei confronti del trustee, ad esempio perché egli ha confuso i beni del trust con i propri; la pronuncia giudiziaria non affermerà che i beni appartengono ai beneficiari, ma potrà confermare il vincolo del trust ed eventualmente revocare il trustee.

Possiamo affermare che i rapporti col trustee, e quindi i suoi poteri, abbiano in senso lato e senza entrare in definizioni strettamente giuridiche, natura fiduciaria. Il disponente può variamente regolare i poteri sia attraverso disposizioni dell’atto istitutivo che possono riservare determinate facoltà al disponente, sia attraverso la nomina di un guardiano, sia attraverso lettere di desiderio, sia attraverso la previsione di un collegio di trustee, ecc.; in generale il trustee può conferire deleghe. In generale si può distinguere tra poteri (doveri) di gestione e amministrazione e poteri (doveri) di disposizione che possono comprendere quelli di surrogazione di un bene ad un altro (vendita di un immobile per acquistarne un altro). Nei poteri di gestione e amministrazione spettanti al trustee rientrano sia i beni che i loro redditi; nei poteri di disposizione può rientrare la facoltà di locare, affittare, dare in godimento ai beneficiarî i beni, ipotecare. Un potere particolare che può o meno essere riconosciuto al trustee è quello di anticipazione: al trustee viene attribuito il potere di “anticipare” rispetto alla fine del trust un determinato vantaggio a favore di un beneficiario (ad esempio l’anticipo di somme per finire gli studi). Un altro particolare potere che può spettare al trustee è quello di vincolare in un nuovo trust determinati beni che spetterebbero al beneficiario. L’articolo 10 della Convenzione consente che la legge che regola il trust sia modificata; tale modifica può essere consentita al trustee (eventualmente col consenso del guardiano) sotto forma di facoltà di sostituire la legge regolatrice del trust e di modificare qualsiasi disposizione dell’atto istitutivo in conseguenza della diversa scelta della legge regolatrice. Con riferimento all’atto istitutivo, si parla di trust for sale, nel quale è espressa la facoltà di disposizione del bene; ma si parla anche di direttive che il disponente può dare in modo vincolante o meno per il trustee. Limiti ai poteri del trustee possono derivare dall’esistenza di una pluralità di essi (ad esempio decisioni all’unanimità o a maggioranza). Tra i poteri del trustee può rientrare la nomina dei beneficiarî. Tale potere può essere previsto dall’atto istitutivo, che può indicare determinate categorie all’interno delle quali operare la scelta. Tuttavia, il potere di nomina dei beneficiarî può essere attribuito ad un terzo, che potrebbe essere anch’egli un beneficiario (ad esempio l’atto istitutivo può prevedere un trust nel quale siano ulteriori beneficiarî i figli dell’unico beneficiario, da quest’ultimo scelti). Al trustee può anche essere attribuito il potere di variare enormemente la vita del trust, ad esempio

prevedendo la possibilità di modificare i beneficiarî indicati dall’atto istitutivo, aggiungendone o eliminandone alcuni: sarebbe un esempio di una rilevante volontà del disponente. Un caso interessante è quello relativo ad un trust per soddisfare le pretese di un piccolo gruppo di azionisti. Un imprenditore detiene l’80% delle azioni di una s.p.a., mentre le restanti azioni sono detenute da un gruppo di azionisti che, peraltro, manifesta lamentele varie, tra cui la ritardata quotazione in Borsa della società. L’imprenditore, per sedare le opposizioni, istituisce un trust trasferendo un pacchetto di

azioni al trustee con l’incarico di trasferirle a quegli azionisti che non alienino le loro azioni e non inizino azioni nel periodo necessario ad ottenere la quotazione della società. Al trustee il disponente ha indicato gli azionisti dissenzienti e ha previsto che i piccoli azionisti, per diventare beneficiarî delle azioni, dovessero manifestare il loro impegno al trustee. Primo dovere del trustee è quello di amministrare i beni in trust (art. 2, lettera c) della Convenzione): per poter amministrare i beni dovrà entrarne in possesso, tutelarne la integrità, compiere tutti gli atti necessari o compatibili con la volontà espressa dal disponente, rispondere nei confronti dei terzi, pagare le imposte, dare il rendiconto della amministrazione. Come la dottrina suggerisce, se la legge scelta è quella inglese, può essere opportuno richiamare il duty of care previsto dal Trustee Act inglese del 2000, recepito nell’ordinamento statunitense.

Nell’esplicazione dei suoi doveri il trustee è tenuto alla diligenza dell’ordinary prudent man prevista dalla common law (qualcosa di analogo alla nostra diligenza del padre di famiglia); ha un dovere di lealtà nei confronti dei beneficiari, dovendosi quindi astenere dal perseguire qualsiasi interesse personale e dovendo essere imparziale nei loro confronti.

Eventuali clausole di esonero dalla diligenza e dalle relative responsabilità devono essere attentamente valutate con riferimento alla legge scelta. Pur essendo il trustee proprietario dei beni a lui intestati, egli incontra, come è nella natura strutturale del trust, dei limiti nei suoi poteri di gestione, amministrazione, disposizione; limiti che rilevano sia in tema di validità degli atti compiuti (il che interessa da vicino il notaio) sia in tema di responsabilità. Tra gli obblighi essenziali del trustee vi è quello di rendiconto (art. 2, lettera c) e art. 8, lettera j) della Convenzione): l’atto istitutivo può prevedere le modalità di tenuta della contabilità e della documentazione relativa e prevedere la periodicità del rendiconto (ad esempio, potrebbe trattarsi di un rendiconto certificato da revisori oppure di una semplice registrazione di entrate e uscite). Il Trustee Investments Act inglese del 1961 ha rielaborato gli standard di diligenza nella amministrazione dei trust. Negli USA la diligenza del trustee è regolata da norme statali e non federali. Ma nel 1995 l’American Bar Association ha approvato l’Uniform Prudent Investor Act che codifica le regole cui si devono attenere i trustee. È poi stato predisposto un testo uniforme per la regolamentazione del ruolo del trustee.

Sia in Inghilterra che negli USA vige la prassi di disciplinare poteri e doveri del trustee in modo completo, anche ampliando le previsioni delle norme vigenti in modo da consentire al trustee di agire come un proprietario.

Fondamentale è quella che Lupoi chiama la posizione dominicale del trustee, che non intendo qui trattare perché certamente al centro di altre relazioni. Mi limito a richiamare gli articoli della Convenzione sopra riportati, a sottolineare come nell’atto istitutivo possono essere introdotte clausole che, ad esempio, vietano al trustee l’alienazione di determinati beni (vedi, però, l’art. 1379 cod. civ.) o di tutti i beni, con la conseguente espressa attribuzione di un’azione al guardiano o ai beneficiarî contro il trustee che violi tale disposizione.

Una parte importante del diritto del trust riguarda la breach of trust che, secondo la legge inglese, comprende ogni azione o omissione che il trustee compia in violazione di quanto previsto dall’atto istitutivo del trust o dalla legge. Le violazioni dei doveri del trustee possono essere le più varie: norme di comportamento derivano dalla struttura stessa del trust, altre norme derivano dalla Convenzione, altre, infine, possono derivare dall’atto istitutivo e dalla legge regolatrice.

Particolarmente rilevante nel diritto inglese è l’azione di tracing, che consente al beneficiario di “recuperare” il bene (o il bene ad esso surrogato) qualora il trustee l’abbia abusivamente alienato o compreso nel suo patrimonio.

Nel nostro ordinamento l’inadempimento del trustee, che potrebbe avvenire anche nel caso di trust testamentario, non può ovviamente dar luogo al tracing di diritto inglese (art. 11, lettera d) della Convenzione), ma potrebbe dar luogo a un’azione di annullamento, a un’azione revocatoria e a un’azione di risarcimento dei danni: è dall’affidamento che deriva l’assenza di rimedi giuridici del disponente contro il trustee.

Va tenuto presente, come principio fondamentale, che il disponente non può imporre al trustee comportamenti che incidano sulla sua autonomia, che va riferita agli interessi del trust istituito; tuttavia, il disponente, il guardiano e i beneficiarî possono far conoscere al trustee le proprie intenzioni mediante lettere di desideri.

A proposito del guardiano, va sottolineato che la sua presenza, oltre a controllare il trustee, può essere opportuna per dare al medesimo un sostegno nelle scelte che egli debba di volta in volta effettuare.

Le leggi sui trust prevedono solitamente l’unanimità dei consensi quando i trustee siano più di uno. È però possibile che l’atto istitutivo contenga deroghe prevedendo altri  regimi (decisioni disgiunte, decisioni a maggioranza, ecc.).

Qualche legge prevede che almeno uno dei trustee sia residente nel paese della legge regolatrice.

[1] Cfr. Galgano F., La fiducia romanistica, in Atlante di Diritto privato comparato, XII, Milano, 1992, p. 181. Fra i due fenomeni non c’è nesso di necessaria consequenzialità.

[2] Cfr. v. Trimarchi M., Il negozio fiduciario, in Enciclopedia del diritto, vol. XXI, Milano, 1992, p. 47. Si può parlare di proprietà fiduciaria in senso tecnico solo quando il vincoo di destinazione del bene al servizio di un interesse altrui presenta il carattere di un vincolo reale.

[3] Cfr. Malaguti C., Il trust, in atlante di diritto privato comparato, XIII, Milano, 1992, p. 184.

[4] V. Galgano F., op.cit., p. 181.

[5] La figura ha origini antiche ed è tuttora ammissibile in Germania come in Francia, dove l’ art. 6 della legge 4 luglio 1990, n. 559 consente che i beni siano destinati irrimediabilmente ad uno scopo ideale. In Italia la fondazione fiduciaria trova fondamento nell’ art. 32 c.c. e nell’ art. 699 c.c..

[6] V. Ferrara  F. sr.,I negozi fiduciari, in Studi in onore di Scialoia, Milano, 1905, p.745 ss.

[7] In questo caso si parla di vendita con mandato a vedere conosciuto in ermania come Verwertungstreuhand Cfr. Galgano F., La fiducia romanistica,cit., p. 182.

[8] V. Ferrara F. sr, Della simulazione, milano, 1901, p.56 ss.

[9]  L’mpostazione risale a  Regelsberger, che per primo parlo di “incongruenza“ o di “eccedenza” tra mezzo impiegato e scopo. v. Regelsberger H., Zwei Beitrage zur Lehre von der Cession, AcP 63 (1880), p. 173.

[10] Nel sistema giuridico italiano, una siffatta struttura del negozio fiduciario avrebbe comportato una particolare situazione giuridica  caratterizzata dalla particolare posizione del soggetto fiduciario. Quest’ultimo violando l’accordo con il fiduciante avrebbe potuto trasferire a terzi la proprietà del bene oggetto del negozio giuridico, senza la possibilità per il sfiduciante di difendersi con azioni reali nei confronti dei terzi, ma solo con una normale azione di risarcimento nei confronti del fiduciario inadempiente. La particolare posizione del fiduciario sarebbe da considerarsi l’elemento discretivo della fiducia “romanistica” nei confronti della fiducia “germanistica” nella quale il fiduciario e legittimato soltanto ad esercitare in nome proprio un diritto del fiduciante e dove la proprietà del bene è ritrasferita allo stesso. Cfr. Jager P. G., Sul’intestazione fiduciaria di quote di S.r.l., in Giur. Comm, 1979, pp. 181-183.

[11] Si tratta di intrpetrazione che utilizza per affermare la validità del negozio fiduciario nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano. V. Grassetti C., Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento, in Riv. Dir. comm, 1979, I, p. 945

[12] V. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1986, pp.178-183. L’autore ritiene non ammissibile nel nostro ordinamento il negozio fiduciario contraddistinto da una causa fiduciae che si risoverebbe in una “arbitraria e on consentita astrazione parziale della causa del negozio atipico”.

[13] V. Grassetti C., Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico, in Riv. Dir. comm., 1936, I, p.945.

[14] Cfr. Ferrara, op. cit., p.54 ss.

[15] Per approfondimenti sul concetto di collegamento tra due negozi giuridici autonomi, v. Scognamiglio R., Collegamento negoziale, in Enciclopedia del diritto,vol. VII, Milano,1994, pp.375-381.

[16] V. Santoro Passarelli, op. cit., p. 180, Galgano F., Negozio Giuridico, cit., p. 427 ss. Anche questa impostazione subì critiche a parte della dottrina tendente a non riconoscre l’ammissibilità del negozio fiduciario.

[17] V. Cass., 19 maggio 1960, n. 1261, in Giust. civ.,  1960, I, 2132, “ Il negozio fiduciario integra una fattispecie permeata sulla causa fiducie che ne a un negozio unico inscindibile, diretto verso un deteinato scopo unitario”.

[18] V. Cass., 19 maggio 1960, n. 1261, in Giur. it., 1960, I, 730; Cass., 19 giugno 1981, n. 4024, Giust. Civ., 1981, I, 1977.

[19] Cfr. ad es. Cass., 23 gennaio 1971, n.146, in Arch. Civ., 1980 p. 900.

[20] Cfr. Cass., 5 agosto 1967, in Giust. Civ., 1967, I, 1977, qui i giudici hanno ritenuto esistente un negozio fiduciario e non na donazione indiretta o una interposizione fittizia.

[21]V. Graziadei V. M. , The Development of Fiducia in Italian and French Law from the 14 th Century to the End of the Ancien Régime, in Helmholz R. e  Zimmermann R. ( cur.), Itinera Fiduciae, Trust and Treuhand in Historical Perspective, Berlino, 1999, 237; F. Treggiari , Minister ultimae voluntatis , I, Napoli, 2002; Lupoi M., I trust nel diritto civile , in Trattato di diritto civile diretto da Sacco R. , Torino, 2004, p. 81 ss.. Tutti questi studi illustrano la dottrina del diritto comune, analizzano l’esperienza pratica maturata all’epoca, e documentano il ruolo che ebbe il notariato nella storia dell’istituto.

[22] Cfr. il Preambolo alla Convenzione, e il Rapporto di Von Overbeck, cit., § 36, p. 378, secondo cui la Convenzione si applica ai trust noti nel mondo di common law e agli istituti analoghi di altri Paesi.

[23] v. Grassetti C. , Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico, RDComm ., 1936, I, 345; Id ., Trust anglosassone, proprietà fiduciaria e negozio fiduciario , ivi , 548.

[24] Lipari V. N., Il negozio fiduciario , Milano, 1964, pp. 153 ss., 182, 187 ss. 303 ss., 390 ss., i riferimenti riguardano la figura della fiducia statica’, che ha trovato accoglimento nella giurisprudenza delle nostre corti a partire da Cass. 21 novembre 1975, n. 3911, in GI , 1977, I, 1, c. 984. Vedi ora Id. , Fiducia statica e trusts , in Rass. dir. civ. , 1996, p. 483 ss .

[25] V. Jaeger P.G. , La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento , Milano, 1968.

[26]  V.Trib. Belluno (decr.), 25 settembre 2002, cit.

[27] Cfr. in particolare Lupoi M. , Trusts , cit., p. 541, autore che per primo ha proposto tale interpretazione dell’art. 13 e R. Luzzatto , “Legge applicabile” e “riconoscimento” di trusts secondo la Convenzione dell’Aja , cit., spec. p. 16.

[28] Cfr. da ultimo le citate Trib. Bologna 16 giugno 2003 e 1° ottobre 2003; Trib. Brescia 12 ottobre 2004.

[29] Dunque, come rilevava Piccoli P. , La Convenzione de L’Aja , cit., p. 153, la scelta della legge straniera non potrà essere ” né immotivata né fraudolenta “. Cfr. Trib. Brescia, 12 ottobre 2004, n. 4185, cit.: “[il riconoscimento] dovrà essere negato solo in mancanza di qualsiasi ragionevole e legittima giustificazione del ricorso all’istituto “. Tale tesi era sostenuta in dottrina, già più di dieci anni or sono, da Lupoi M. , Introduzione ai trusts , Milano, 1994, p. 148 ss. Lo stesso autore osservava che l’art. 13 della Convenzione può essere applicato dal giudice quando, ad esempio, la particolare configurazione di uno specifico trust renda non esperibile l’azione re22 vocatoria per la difficoltà di individuare il giusto convenuto: Lupoi M. , Lettera ad un notaio, cit.; e v. anche Id. , La reazione dell’ordinamento di fronte a trust elusivi , TAF , 2005, p. 333.

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