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Le strategie d’impresa e lo sviluppo sostenibile

  1. Le strategie di sostenibilità come risposta efficiente alle politiche pubbliche integrate di più recente generazione.

Il fattore ambiente ha assunto, progressivamente, il ruolo di importante criterio di selezione delle tecnologie di processo e dei prodotti nei cicli produttivi. Accanto alla necessità di proteggere le risorse fondamentali e l’ambiente, vi è quella di assicurare uno sviluppo economico responsabile a vantaggio delle future generazioni.

L’ambiente è entrato a pieno titolo nelle strategie d’impresa, in uno scenario di politica per l’ambiente che punta su una responsabilità condivisa tra i vari attori. Ne consegue che la logica del rapporto “ambiente – industria” tende a mutare da un’impostazione “astrattamente normativa” (in cui i criteri di accettabilità del grado di inquinamento vengono fissati in maniera abbastanza “statica” in funzione di valutazioni teoriche, in molti casi insufficientemente calate nella dinamicità sia del sistema ambientale che di quello aziendale) ad una imperniata maggiormente sugli aspetti evolutivi della tecnologia e sensibile alla dinamica dei “criteri di valutazione ambientale”.

La natura stessa del processo produttivo comporta – trasformando la materia – particolari effetti ambientali, dal consumo di energia e acqua, alle emissioni in aria e in acqua, alla produzione di rifiuti ed a specifici aspetti di sicurezza interna ed esterna agli impianti. In questa nuova visione dello sviluppo, l’Unione Europea si sta attrezzando con l’obiettivo di conciliare gli aspetti di crescita e di competitività con quelli di compatibilità ambientale e sicurezza dei processi e dei prodotti, nonché di tutela e salute delle persone e dell’ecosistema di riferimento.

Per perseguire un simile obiettivo, i Governi nazionali hanno la responsabilità di definire e mettere in atto politiche ambientali che si integrino nelle politiche economiche, sociali, industriali.

Il concetto di sviluppo sostenibile implica, infatti, una sostanziale interdipendenza tra politica industriale e politica ambientale, con un ruolo particolare delle strutture tecniche ed amministrative della pubblica amministrazione che dovranno accompagnare ai tradizionali compiti di controllo, quelli di prevenzione dell’inquinamento e di promozione ed assistenza all’attività industriale basata sullo sviluppo di tecnologie avanzate per la protezione dell’ambiente.

Un fattore importante, in uno scenario evolutivo di questo tipo, è costituito dalla necessità di aumentare l’efficacia di alcuni strumenti volontari di politica ambientale, al fine di rendere conveniente per le imprese il perseguimento dell’obiettivo del rispetto ambientale nonché al fine di rendere le imprese stesse agenti di cambiamento nella direzione della crescita della qualità dell’ambiente.

Un altro elemento essenziale da tenere in considerazione è il rapporto con il territorio quale fattore determinante sia per la valutazione delle pressioni ambientali dovute alle attività produttive sia per le decisioni di investimento delle imprese, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità di infrastrutture.

In questi ultimi anni il problema dell’impatto ambientale delle attività produttive ha determinato l’impegno di molti governi, organismi governativi e della stessa Unione Europea (UE), per la definizione di nuove normative ed azioni che permettessero lo sviluppo di produzioni più pulite valorizzando come strumento fondamentale il concetto di migliori tecniche disponibili, in inglese BAT (Best Avalaible Technologies).

L’esigenza di nuovi metodi di produzione, intrinsecamente puliti, è sempre più attuale. Il concetto di produzioni più pulite passa attraverso la messa in opera di azioni preventive piuttosto che correttive. L’obiettivo principale è allora quello di affinare i processi produttivi affinché comportino il minimo impatto ambientale eliminando nel contempo le inefficienze energetiche e ottimizzando l’impiego delle risorse.

In sintesi si può dare la seguente definizione: le produzioni più pulite consistono nell’attuazione di strategie preventive integrate che ottimizzino prodotti, processi e servizi allo scopo di minimizzare l’impatto ambientale ed abbattere i costi.

Ciò può esser ottenuto attraverso le seguenti azioni: evitare o ridurre la produzione di inquinanti, impiegare efficacemente risorse energetiche e materie prime, ridurre gli scarti producendo a costi inferiori ed ottenendo maggiori profitti.

Le produzioni pulite devono tendere al limite teorico delle “emissioni zero” anche se inevitabilmente, è impossibile annullare completamente l’impatto ambientale giacché qualunque azione ha conseguenze, a volte imprevedibili, sull’ambiente.

Va evidenziato come le produzioni più pulite siano strettamente collegate al concetto di Total Quality Management (TQM) ed agli schemi di certificazione di qualità come ISO 9000 e ISO 14000, e per l’Europa, il regolamento EMAS.

  1. Le strategie di sostenibilità, come garanzia all’impresa del livello di consenso necessario al consolidamento della propria presenza sul territorio

Il ruolo del marketing nel contribuire alla definizione di strategie d’impresa nell’era dello sviluppo sostenibile potrà assumere caratteristiche diverse a seconda del settore di attività dell’impresa, della sua dimensione, del grado di evoluzione e di innovazione tecnologica, del grado di orientamento al mercato, della cultura gestionale ed organizzativa, ecc. Il contributo della funzione di marketing può svilupparsi secondo le linee seguenti:

  • valutazione della rilevanza che hanno per le varie attività aziendali le varie questioni relative allo sviluppo sostenibile;
  • analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti dei vari stakeholders dell’impresa nei confronti dei temi dello sviluppo sostenibile (da quelli generali a quelli specifici, come ad esempio la biodegradabilità del materiale degli imballi e delle confezioni);
  • valutazione della misura in cui i vari prodotti della impresa possono essere progettati/fabbricati/distribuiti/installati/sostituiti/riciclati secondo principi di sostenibilità e con quali variazioni di costi/ prezzi /ricavi;
  • valutazione dei rapporti che l’impresa intrattiene con centri ed istituti di ricerca, movimenti ecologici e di impegno sociale e civile, strutture pubbliche operanti nei vari campi dello sviluppo sostenibile, mezzi di comunicazione;
  • valutazione dei programmi di promozione dell’idea di sviluppo sostenibile ai quali l’impresa ha partecipato direttamente o indirettamente.

Una volta predisposta una consimile base di analisi e di valutazione, sarà possibile passare alla definizione di un sistematico piano strategico nel quale definire: a) i valori generali in termini di sostenibilità che si intendono realizzare; b) le soluzioni finanziarie, organizzative e gestionali da adottare; e, infine, c) il piano di marketing da realizzare. Il piano di marketing sostenibile, ovvero la definizione delle modalità d’impiego delle leve fondamentali del “marketing-mix”, comprende le decisioni che l’impresa adotterà in materia di:

  • prodotti (gamma e design);
  • materiali impiegati nei prodotti, nelle confezioni e negli imballaggi (predisposizione al riuso ed alla riciclabilità);
  • prezzi (incentivi volti a stimolare comportamenti coerenti con lo sviluppo sostenibile);
  • distribuzione, vendita personale, direct marketing;
  • assistenza e servizio;
  • promozione, pubblicità, pubbliche relazioni, sponsorizzazioni.

Quanto sopra costituisce solo un primissimo abbozzo di una formulazione delle strategie e dei programmi mediante i quali un’impresa può affrontare la sfida dello sviluppo sostenibile. Saranno necessari ancora molto tempo e molti sforzi affinché le nuove realtà si impongano con la forza dell’evidenza e dei comportamenti condivisi. Ma l’impresa di successo non è sempre stata quella che ha saputo anticipare i tempi, cogliendo i vantaggi che spettano agli innovatori? Va altresì tenuto conto che l’azione di marketing dell’impresa presuppone una visione unitaria nell’ambito della quale le varie funzioni fondamentali – finanza, ricerca e sviluppo, operazioni, marketing e vendite – siano in grado di integrarsi e di completarsi in una superiore visione delle realtà ambientali e di mercato.

  1. La politica aziendale per la sostenibilità

Ogni politica aziendale che miri ad un rilancio della propria attività al fine di corrispondere e garantire all’utenza l’erogazione di prestazioni e servizi soddisfacenti e di qualità  come anche assicurare una prospettiva di sicura affermazione dove deve legarsi ad  un oculato ed intelligente Piano Aziendale.

Infatti, l’affermazione dell’azienda non si realizza solamente nei termini tradizionali della competitività ma attraverso nuovi strumenti per l’attuazione di strategie che sappiano anticipare e prevedere il cambiamento con il conseguente adeguamento in termini di offerta dei servizi a soggetti privati e pubblici.

Attraverso la sostenibilità, un’azienda punta a raggiungere il perfetto equilibrio tra affari, società e ambiente. Questo equilibrio differisce da azienda ad azienda, poiché gli interessi in gioco possono divergere.

L’impegno alla sostenibilità genera opportunità commerciali, tra cui apertura a nuovi mercati, migliore reputazione, maggiore trasparenza e buone credenziali nel mercato del lavoro specializzato, solo per citarne alcune.

Le società tendono ad avere maggior successo sul lungo periodo se sviluppano una strategia che tiene conto degli interessi dei vari interlocutori, dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

Una politica aziendale improntata ai criteri della sostenibilità deve penetrare in tutte le aree di attività dell’organizzazione: risorse umane (soddisfazione dei dipendenti, valutazione del rendimento e remunerazione, sviluppo personale), marketing (percezione dei consumatori, indagini sulla soddisfazione dei clienti), comunicazione esterna (reputazione), informazioni finanziarie (comportamento degli investitori), politiche generali (scelta dei fornitori, approvvigionamenti, politica ambientale).

Mappa delle caratteristiche e delle abilità per il coinvolgimento

La correlazione positiva tra la sostenibilità di un’azienda e le sue prestazioni finanziarie è sempre più evidente. Il rendimento sul capitale investito nelle aziende sostenibili non è inferiore alla media delle società quotate e, nell’attuale clima d’investimento, può risultare addirittura superiore. Una strategia aziendale sostenibile darà sicuramente i suoi frutti nel corso del tempo, basti pensare al risparmio in termini di materie prime ed energia e dunque di costi prodotti dall’adozione di un’avveduta politica ambientale. Inoltre, viene ridotto il rischio ambientale e dunque il pericolo di danni alla collettività. Inoltre, una società con una buona politica ambientale e sociale gode più facilmente della fiducia delle autorità e degli altri interlocutori in caso di piani di espansione o investimento.

Attraverso la Politica Aziendale si intende porre in risalto la volontà aziendale di recepire, conseguire e mantenere la conformità alla normativa cogente e più in generale a tutte le prescrizioni che l’azienda sottoscrive (accordi volontari) in relazione agli aspetti etici, sociali ed ambientali direttamente o indirettamente connessi all’organizzazione, definendo un ragionevole livello di prestazione per il Sistema di Gestione, mirando al suo costante miglioramento e predisponendo una comunicazione interna ed esterna adeguata alla realtà e alle necessità aziendali.

Attraverso la politica aziendale, gli organi direttivi comunicano, all’interno ed all’esterno dell’azienda, che intende operare con metodi e sistemi efficienti e trasparenti che garantiscano la continua rilevazione delle aspettative delle parti interessate e l’evoluzione del sistema di gestione che ne assicura l’attuazione, in termini di continuo miglioramento, verso dette aspettative. Le modalità attraverso le quali si garantisce la comunicazione di detta politica sono di seguito riportate.

La politica discende inoltre dalla considerazione degli aspetti e impatti ambientali definiti nel documento analisi ambientale e dei suoi periodici aggiornamenti e si integra, coerentemente con la politica aziendale, tanto che, per precisa volontà dell’organo direttivo, è formalizzata in un unico documento sintetico, demandando a programmi e piani specifici gli obiettivi da questa discendenti.

L’azienda si impegna a fornire gli investimenti necessari e a diffondere a tutti i livelli la cultura aziendale poiché crede che i risultati operativi aziendali ed il rispetto dell’etica e dell’ambiente siano raggiungibili solo grazie all’impegno e alla professionalità di tutti coloro che direttamente e indirettamente partecipano alle attività ed alla vita dell’azienda stessa.

  1. I programmi e le azioni concrete, basate su indicatori condivisi e su target misurabili

Lo sviluppo sostenibile non è un generico principio ma è un percorso di attuazione di politiche integrate economiche sociali ed ambientali, scandito da precisi impegni e scadenze. Il negoziato internazionale ha portato in primo piano la necessità ed anche la opportunità di ancorare la sostenibilità ad elementi quantitativi certi, capaci di interpretare correttamente il disegno programmatico, i processi di Agenda 21, i Piani per lo sviluppo sostenibile e la verifica dei progressi effettivamente conseguiti.

C’è una differenza filologica tra il decennio scorso e l’attuale nei negoziati per lo sviluppo sostenibile: alle perorazioni spesso soltanto di principio, si preferiscono ormai dichiarazioni ed assunzioni di impegni corredati da obiettivi quantitativi e da tempi certi. Non sapremmo davvero dire se questa tendenza, assunta per contrastare la vacuità di certe pur importanti dichiarazioni di intenti, abbia dato campo ad una effettiva maggiore concretezza. Quello che è certo è che almeno si sa come stanno le cose e come dovrebbero cambiare in nome della sostenibilità.

Assumono pertanto un ruolo nuovo gli indicatori e i sistemi di indici associati ad un determinato programma. Solo per citare i più rilevanti al processo di Lisbona è stato associato il sistema degli Indicatori strutturali e dei relativi target e nell’Assemblea del Millennio, nello stesso anno, ai cosiddetti Millennium Development Goals sono stati associati gli indici quantitativi ed i target ed è stato commissionato e finanziato l’incarico del monitoraggio di tutti gli indici.

La manutenzione di un sistema di indici di complessità anche minima può essere assicurata soltanto mediante l’uso di sistemi informativi basati su architetture tecnologiche opportunamente strutturate. Un progetto di tal genere deve avere alla base una visione condivisa del modello di sviluppo e della sostenibilità e deve tener conto della vasta e variegata elaborazione di liste e di approcci metodologici che è stata prodotta nel secondo quinquennio tra Rio e Johannesburg. Deve inoltre dotarsi di una metodologia formale di tipo matematico-statistico capace di trattare un problema sistemico, complesso, caratterizzato dalla molteplicità dei fenomeni che lo determinano e dalla multi-disciplinarità delle conoscenze necessarie per farvi fronte, quale quello dello sviluppo sostenibile. Un programma di indicatori deve essere sviluppato su una base informazionale e comunicazionale efficiente, condivisa ed accessibile.

Usare gli indicatori fa parte ormai della vita di tutti i giorni, tanto che il sistema dei mass-media ha imparato a manipolare i dati per orientare i consumi, le preferenze ed anche le visioni del mondo dei cittadini. Non sempre questa operazione avviene in modo corretto[1].

Gli indici borsistici, nati per soddisfare gli interessi di alcuni soggetti, sono ora sempre più comunemente interpretati come indicatori dello stato di salute dell’economia solo perché abbiamo a cuore lo stato della nostra economia. Se questo è vero non vi può però essere dubbio sul fatto che sia diverso classificare le nazioni in base al PIL pro-capite piuttosto che con l’indice di equità della distribuzione del reddito. Se un’economia viene gestita per massimizzare il PIL è possibile che ciò avvenga.

Vi è dunque un delicato rapporto tra informazione e conoscenza. Assicurare l’accesso alla prima per garantire la seconda è materia delicata, ricca di difficoltà e di trabocchetti. È certo che i decision-maker desiderano grandemente avere i valori corretti di tutti gli indicatori, almeno quanto è incerto che essi siano ben disposti a comunicare quei dati al pubblico. Si evidenzia così un altro aspetto, legato al vantaggio competitivo dell’informazione, che può essere un ostacolo alla sua diffusione corretta e quindi, infine, allo sviluppo di una conoscenza collettiva dei problemi, equilibrata ed affidabile.

È altrettanto delicato governare correttamente l’informazione e quindi scegliere e diffondere buoni indicatori. È facile commettere degli errori e qualche volta si commettono degli errori anche in perfetta buona fede. Gli errori più comuni e più pericolosi derivano dalla funzionalizzazione dell’informazione alle proprie credenze, finalità o desideri, quando non a ideologie e falsi modelli.

È molto comune che se un indice porta “cattive notizie” si sia tentati di alterarlo, cambiarne le definizioni, sospendere i fondi a chi lo produce. In alcuni paesi si definisce “disoccupato” solo chi cerca lavoro, non chi ha smesso di cercarlo. In altri si definisce “occupazione” anche un posto di lavoro occupato per poche settimane. Gran parte delle amministrazioni cittadine non comunicano i dati sull’inquinamento dell’aria per timore di reazioni caotiche ed incontrollate della popolazione.

Gli indicatori possono confondere il pubblico con i numeri, facendogli perdere la visione corretta della realtà. Possono dar luogo ad eccessi di confidenza, basati su un’informazione “appealing” ma distorta. In nessun caso gli indicatori sono la realtà, al più ne rappresentano alcuni dati parziali. A volte in maniera presuntuosa come accade con gli aggregati che sommano assieme cose buone, cattive e mediocri. Accade per il calcolo del PIL. Altre volte si misura ciò che è misurabile piuttosto che ciò che è importante; può accadere per opportunismo ma anche, spesso, per la difficoltà di misurare le cose. Si pensi agli indici di biodiversità. Si pensi alla formazione ed all’educazione misurate con gli indici di spesa piuttosto che con l’apprendimento reale. Quello che conta è pertanto sempre la conoscenza, impossibile senza l’informazione. Ma l’informazione senza conoscenza è il più delle volte causa di disastri.

Un indicatore coglie un aspetto parziale di un processo e non necessariamente può interpretarne i diversi aspetti interconnessi, l’economico, il sociale o l’ambientale. La interpretazione dell’informazione richiede conoscenza, così la lettura di un indicatore potrà essere fatta soltanto disponendo di un modello cognitivo, nel quale confluisce tutta la conoscenza informale, l’aggregato teorico-filosofico del quale disponiamo, e formale, espressa mediante i linguaggi strutturati della conoscenza scientifica, la matematica, la fisica, la statistica etc. Tali modelli sono in sé imperfetti ed incerti. Un modello può padroneggiare l’incertezza con adeguati strumenti scientifici ma non la sua propria incertezza. Ogni teoria scientifica è tale in quanto falsificabile, secondo Popper, quindi nessun modello o teoria potrà mai essere scevra di errori. Tuttavia nella nostra mente risiedono sostanzialmente modelli, assunzioni sul mondo basate su paradigmi come la cultura, il linguaggio, l’esperienza ed anche la propria personale acutezza.

I nessi causali dei fenomeni possono sfuggire ai nostri modelli mentali. Nella realtà accade una quantità di cose con influenza molto variabile sugli esiti di un processo che ci sta a cuore. Impossibile osservarle tutte. Il primo fronte contro la complessità del reale è la semplificazione. Così però si commettono errori. I sistemi computerizzati hanno grandemente aumentato la nostra capacità di fronteggiare la complessità: il confine della conoscenza si è marcatamente spostato a nostro favore ma, al di là del confine, il deserto dei Tartari è rimasto più o meno delle stesse dimensioni.

I nostri processi di semplificazione mentale sono straordinariamente efficaci, né è prova il successo stesso della nostra specie biologica. Ciò non ha però potuto evitare al genere umano emergenze, disastri e guerre. L’esaurimento delle risorse e l’impetuosa crescita della popolazione mondiale pone oggi per la prima volta l’uomo a confronto con le sue probabilità di sopravvivenza, appena pochi anni dopo lo scampato pericolo di un conflitto nucleare generalizzato. I nostri modelli, potentissimi per analizzare ed interpretare, sono deboli nel prevedere. Lo sviluppo sostenibile mette in questione la sopravvivenza della specie a lungo termine ed in condizioni di equilibrio: molti dei fattori che determineranno queste probabilità di successo sono effettivamente al di là dei limiti della nostra conoscenza. Agli indicatori di sviluppo sostenibile si chiede di rappresentare lo stato dei nostri sistemi, ma si chiede anche di orientare i cambiamenti necessari per garantire il successo delle nostre azioni.

Questo è di gran lunga più difficile. Quello che ci serve per tentare la strada dello sviluppo sostenibile non è un indicatore piuttosto che un altro. È invece un sistema di governo dell’informazione basato su un’etica propria dell’informazione e su un programma di azione reso esplicito negli obiettivi e nei tempi.

Gli indicatori controllati dal sistema potranno essere molti o anche moltissimi, perché molte sono le finalità che vogliamo perseguire e vogliamo tentare di farlo in molte maniere diverse. Una parte del sistema dovrà essere dedicato a preservare i beni comuni, i global commons, l’atmosfera, gli oceani, le foreste, gli stock naturali, il clima. Ma l’altra parte osserverà i fenomeni a livello territoriale privilegiando la dimensione locale nella quale si sono sviluppate infinite diversità di natura sociale e culturale ed infinite abilità diverse nel trattare e trasformare gli alimenti, le materie prime e i prodotti della natura.

La ragione di un sistema di informazione sulla sostenibilità non è dunque l’unificazione e l’omologazione di bisogni, desideri ed azioni ma, meno paradossalmente di quanto sembri, la massima diversificazione degli atteggiamenti, dei pensieri, del saper-fare e delle culture perché questa è la via migliore perché siano riconosciuti e protetti i fattori comuni degli equilibri tra uomo e natura.

Il sistema accoglierà non solo gli indicatori che, per essere derivati da misure fisiche, riscontrano obiettivamente alcune fenomenologie, ma anche indicatori, di altra natura, basati sulla percezione soggettiva dei fenomeni con lo scopo di misurarne la qualità piuttosto che la quantità. Non è escluso che variabili fisiche possano contribuire a definire la qualità di un contesto. Quello che certo non possono fare è leggere fatti determinanti per la nostra vita come libertà, solidarietà, amore, speranza, armonia, bellezza, equilibrio, soddisfazione, salute etc. Si obietta di norma che gli indici di queste pur importanti questioni non sono affidabili né ripetibili. È un errore di natura riduzionista: nessun giudizio individuale sarà eguale per tutti, ma il giudizio di tutti i membri di una comunità sarà solido, stabile e ripetibile quanto una misura fisica ma, a differenza di quest’ultima, sarà dotato di dinamica, capacità di adattamento e di evoluzione, sensibilità ai cambiamenti che gli strumenti non possono percepire.

Gli indicatori di un sistema sono difficili da scegliere. Corrispondono a modelli interpretativi spesso incerti e l’informazione che recano si presta molto spesso ad interpretazioni dissonanti. Ciò non significa che se ne possa fare a meno: non c’è scelta. Muovere le proprie decisioni senza informazione è come volare alla cieca.

Potranno esservi inconvenienti nell’uso di un sistema informativo sullo sviluppo sostenibile. Occorre pertanto evitare ogni rigidità e programmare il learning on the job. Un sistema complesso richiede tentativi ed esperienza, comporta errori e fallimenti. Consente però l’apprendimento a partire dai vantaggi e dagli inconvenienti. Ogni indicatore è indispensabilmente associato ad un obiettivo connesso la sostenibilità. L’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) ha adottato un modello descrittivo che classifica gli indici essenzialmente in base alle modalità con le quali vengono fissati i relativi obiettivi (target):

  • Indicatori descrittivi di quanto sta avvenendo all’ambiente ed all’uomo;
  • Indici di performance rispetto ad obiettivi definiti;
  • Indici di efficienza che misurano gli effettivi progressi;
  • Indici globali di welfare che classificano il modello globale di sviluppo.

4.1. Indicatori descrittivi

Fa parte di questa classe la maggioranza degli indicatori compresi nelle liste delle principali istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite (core-set UN-CSD, indicatori World Bank), il Consiglio Europeo (Indicatori Strutturali), e della stessa OECD. Questi indicatori descrivono la situazione in atto a partire dai fenomeni economico-sociali ed ambientali rilevanti.

Alcuni importanti modelli sono stati sviluppati per questa classe di indicatori come, solo per citare quello di maggior successo, il modello PRESSIONE-STATORISPOSTA, PSR, proposto dall’OECD nei primi anni 90. Il modello PSR è nato per classificare le variabili ambientali ma, poiché la sua struttura fu derivata dalla teoria generale dei sistemi, ha in sé le caratteristiche per adattarsi anche ad altri contesti. Il modello sistemistico classico è invece basato su una classificazione delle variabili in INPUT-STATO-OUTPUT la cui variante semplificata INPUT-OUTPUT ha avuto molto successo con la teoria dei Flussi di materia sviluppata in Germania dall’Istituto Wuppertal.

Per collegare gli aspetti sociali ed economici delle attività umane agli effetti sull’ambiente è stata introdotta una variante del modello PSR con il modello DPSIR che da un lato inserisce i determinanti (D) dell’origine antropica delle pressioni sull’ambiente, rappresentati da indicatori che descrivono le driving forces (i determinanti) attraverso gli elementi che caratterizzano gli stili di vita, i modelli di produzione e consumo ed anche le forme istituzionali rilevanti. I determinanti chiave sono lo sviluppo demografico, lo sviluppo dei bisogni e dei consumi e la crescita della domanda delle risorse, l’energia, i trasporti e le tecnologie industriali.

I carichi sull’ambiente sono descritti da indicatori di pressione, di uso delle risorse fossili e viventi, di energia, di acqua, di uso del territorio, di rilasci di inquinanti fisico-chimici, biologici e di produzione dei rifiuti. Dall’altro lato si introducono gli impatti (I) che consentono di quotare, oltre agli effetti delle pressioni antropiche sullo stato dell’ambiente, gli effetti su alcune importanti questioni come la salute umana.

Gli indicatori di risposta (R) sono invece attivati per classificare i descrittori delle azioni intraprese per rispondere alle alterazioni dello stato dei sistemi che si ritengono pericolose (inquinamento) ma anche per indirizzare gli ecosistemi verso equilibri sostenibili. L’efficacia delle politiche di risposta deve comunque essere valutata attraverso l’effetto sulle variabili di stato ecosistemiche.

4.2. Indicatori di performance

La comparsa negli scenari internazionali e nazionali di standard ambientali, regolamenti e protocolli crea una serie di riferimenti, di valori limite o range prescritti per molti indicatori. In qualche caso, come nelle norme sugli inquinanti atmosferici emesse della CE, vengono fissati anche i tempi entro i quali i vari paesi dovranno mettersi in regola. Associando condizioni, limiti e tempi di riferimento un indicatore diviene un indicatore di performance e può essere misurato in termini di distanza dal target, inteso come combinazione di obbiettivo e tempo per raggiungerlo. La performance può essere riferita a differenti tipi di condizioni o a differenti scale di valori, come:

  • gli obiettivi delle politiche ambientali nazionali o locali;
  • i target internazionali condivisi e ratificati dai governi;
  • alcuni obiettivi preliminari per ristabilire possibili condizioni di sostenibilità o per avvicinarsi ad esse.

Tali obiettivi vengono catalogati dall’Agenzia Europea come:

  • PTV, Policy Target Values;
  • SRV, Sustainable Reference Values, quando espressi all’interno di un disegno esplicito di sviluppo sostenibile.

Fino ad oggi le esperienze reali con indicatori di performance tipo SRV, capaci di racchiudere gli indicatori entro un quadro di obiettivi di sviluppo sostenibile molto limitate, tra esse si inquadrano il Progetto ISSI e questo Progetto.

4.3. Indicatori di efficienza

A questa classe di indicatori appartengono i rapporti o le differenze (o altre relazioni algoritmiche) tra entità diverse della catena causale. Si tratta in genere di intensità, flussi unitari, densità o anche semplicemente di indicatori pro capite. Sono i più espressivi e tra quelli di maggior importanza per le decisioni politiche. Danno in genere una visione più chiara della qualità e della sostenibilità dei processi.

Appartengono agli indicatori di efficienza gli indicatori di intensità di risorse per unità di prodotto (intensità energetica, intensità trasportistica, flussi di materia per unità di servizio reso etc.), gli indicatori di disaccoppiamento (decoupling) che rapportano l’evoluzione degli indicatori ai parametri della crescita economica, gli indicatori di eco-efficienza che rapportano il servizio industriale destinato al consumo al servizio ambientale ed ai flussi di materia ed energia (MEF, MIPS) o ancora alla quantità unitaria di rifiuti o di inquinanti rilasciati nell’ambiente. Alcuni indici di questa classe si prestano alla valutazione di efficienza globale di un’impresa o di una nazione come il TMR, Total Material Requirement, l’Impronta Ecologica, l’intensità carbonica media globale, l’energia primaria per p*km di mobilità etc.

Un recente importante studio è stato dedicato dall’OECD al disaccoppiamento tra parametri della crescita economica e indici di consumo delle risorse. Lo studio associa il concetto di sostenibilità al concetto di dematerializzazione dell’economia.

Non vi è dubbio che la possibile crescita futura dell’economia sarà indispensabilmente legata al risparmio di risorse, oppure non sarà, posto che le risorse naturali sono comunque finite e che la popolazione dei consumatori è comunque in crescita. Tuttavia la dematerializzazione relativa dell’economia può non essere sufficiente perché i limiti allo sviluppo si determinano per effetto dei limiti delle risorse naturali, che sono limiti assoluti e che come tali vanno presi in considerazione.

4.4. Indicatori globali di welfare

A questa classe appartengono indici complessi che associano ai parametri correnti della crescita economica, tipicamente il Prodotto Interno Lordo, veri e propri indicatori della qualità sociale o ambientale dello sviluppo fino ad aggregati estesi che mirano alla valutazione dello sviluppo sostenibile. Essi abbisognano di fondamenti in una concezione integrata di sviluppo economico e sociale e di qualità e stabilità dell’ambiente. In alcuni di essi, i cosiddetti PIL verdi, il fattore ambientale condiziona i fattori della crescita economica mediante la sottrazione dal PIL dei conti e dei costi del deprezzamento ambientale. Nella categoria degli indicatori globali di welfare cadono molti tra i più conosciuti indicatori globali di benessere come HDI della UNDP, ISEW, Genuine Progress, Genuine Saving, della World Bank che contengono nuove definizioni del concetto di benessere, non più determinate mediante il mero conteggio monetario delle transazioni economiche.

La polemica con lo strapotere mediatico del PIL non potrebbe essere più esplicita. Il PIL, antica misura della crescita economica escogitata da Kuznets per valutare la potenza militare delle nazioni in tempo di seconda guerra mondiale è accusato di trasformare in crescita economica anche le disgrazie, le catastrofi naturali, il crimine i divorzi etc. e di non saper tener conto dell’immensa ricchezza che si produce sul piano umano e sociale senza dare luogo a transazioni economiche. Vale per tutti l’esempio del lavoro domestico e delle attività familiari per l’educazione dei figli. Poiché essi non sono in alcun modo retribuiti, non danno effetti sul PIL; eppure non è chi non veda che la sopravvivenza stessa della società, la sua qualità e la sua forza si viene a determinare proprio nelle mura domestiche.

Alcuni indici generali di benessere, come il Genuine Progress Indicator messo a punto da un think tank di Oakland, USA, il “Redefining Progress”, aggiunge alla tradizionale produzione di reddito e di valore aggiunto il lavoro domestico ed il lavoro volontario, e cancella il fatturato delle emergenze sociali, il crimine, separazioni, divorzi, ed ambientali, per la parte impiegata per la riparazione dei danni. Da questo conto risulta che il PIL americano è sovrastimato di 3000 Mld$ (su circa 11.000) e che la crescita reale nell’arco di 25 anni dal 1976 è di appena il +25% contro il +125% calcolato dal PIL.

Lo stesso processo di globalizzazione ha determinato la crisi oggettiva del concetto di PIL quando si è compreso che eguali valori monetari avevano un peso ben diverso sui diversi mercati. All’interno delle grandi aree monetarie, quella del dollaro, quella dell’euro e quella dello yen, si è tentato di rapportare i valori monetari al potere di acquisto, calcolando i panieri di beni di consumo e di materie prime che possono essere acquistati sui vari mercati con lo stessa somma di denaro. Sono così nati i PIL PPP (Purchasing Power Parity) con lo scopo di sostituire alle parità dei cambi tra le divise (dove esistono, non è il caso dell’Europa), un tipo nuovo e più equo di parità.

Questi tentativi hanno avuto il pregio di soggettivizzare il concetto di ricchezza alle condizioni effettive delle economie nazionali. Noi aggiungiamo che hanno avuto anche un altro tipo di pregio, quello di spezzare la dittatura asfissiante del PIL nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni e di relativizzare il concetto di benessere aprendo la strada a valutazioni più estensive e comprensive del vero welfare.

Più in generale si è sviluppata una teoria generale delle risorse che postula l’esistenza accanto al capitale finanziario e al capitale tecnologico (le macchine) di nuovi asset costituiti dal capitale naturale (tutte le risorse ambientali), dal capitale umano (conoscenza e know-how) e del capitale sociale (istituzioni, organizzazione sociale, governo). La sostenibilità generale viene associata al concetto di stabilità globale delle risorse ammettendo, nelle teorie della sostenibilità debole, la sostituibilità delle risorse e, nelle teorie della sostenibilità forte, la insostituibilità della risorsa ambientale ed umana. Per questa via i parametri della qualità ambientale, dell’equità sociale ed inter-generazionale, della solidarietà e della sostenibilità possono integrarsi in maniera equilibrata.

La crisi di fiducia nei parametri bruti della crescita economica si esprime ormai in molti modi. La stampa segnala in questi giorni che un piccolo paese, non particolarmente ricco né evoluto, una monarchia autocratica come il Buthan, avrebbe deciso di misurare annualmente la propria crescita in termini di “Felicità Interna Lorda”, il FIL, basato sul concetto che ciò che va massimizzato è la felicità, non il reddito. La formula matematico-statistica non è stata resa nota ma l’attenzione degli economisti occidentali è assicurata. Richard Layard, consulente economico di Tony Blair, in un suo recente saggio prescrive che la qualità della crescita debba essere misurata su sette grandi aree: le relazioni familiari, il reddito, il lavoro, la comunità e gli amici, la salute, la libertà personale, i valori della persona.

A Princeton, negli Stati Uniti, un gruppo interdisciplinare guidato da Alan Krueger sta mettendo a punto il “National Well-being Account” un indice della personal satisfaction degli individui.

Le visioni moderne dello sviluppo sostenibile non possono ignorare questo tipo di tendenze, pur nella difficoltà di dare delle definizioni condivise del concetto di qualità dell’economia e di welfare e di dare misure attendibili della risposta soggettiva degli individui in termini di qualità della vita, felicità e soddisfazione. Tuttavia, poiché lo sviluppo sostenibile configura un percorso reale di riforme e di evoluzione, gli indici generali di welfare possono essere indici di sostenibilità se, a partire dall’andamento delle serie storiche e delle tendenze, vengono associati ad obiettivi chiari e definiti.

Gli indici di sviluppo sostenibile, come quelli sviluppati da questo Progetto, si incardinano sulla evoluzione della serie storica dei valori nella comunità di appartenenza, su una visione di tale sviluppo e su obiettivi target e tempi che definiscono la via da percorrere.

  1. La comunicazione di reporting economico e finanziario con il reporting di sostenibilità

Il reporting di sostenibilità è ormai una prassi consolidata per le più importanti aziende multinazionali. Infatti, circa l’80% delle prime 250 aziende globali per fatturato (Fortune Global 250) elabora un bilancio di sostenibilità. Segno evidente che la responsabilità sociale, è un tema sempre più rilevante per l’alta direzione aziendale[2].

Scopo dello sviluppo sostenibile è quello di ”soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare I propri bisogni”[3]. Le organizzazioni di ogni tipo, in virtù della funzione centrale che rivestono nella società, hanno un ruolo importante nel raggiungimento di questo obiettivo.

Tuttavia, in quest’epoca caratterizzata da una crescita economica senza precedenti, il raggiungimento di quest’obiettivo può sembrare più un’aspirazione che una realtà. Mentre l’economia mondiale si globalizza, nascono nuove opportunità dl ricchezza e di miglioramento della qualità della vita, favorite dal commercio, dalla condivisione delle conoscenze e dall’accesso alla tecnologia. D’altra parte, queste opportunità non sono sempre disponibili per una popolazione in continua crescita e comportano nuovi rischi per la stabilità dell’ambiente. Le statistiche indicano un miglioramento della vita di molte persone in tutto il mondo controbilanciato da informazioni allarmanti sullo stato di salute dell’ambiente e sul fardello di povertà e fame che affligge milioni di persone. Da questo contrasto nasce uno dei dilemmi più urgenti del ventunesimo secolo.

Una delle sfide centrali dello sviluppo sostenibile è la richiesta di scelte nuove e innovative e di diversi modi di pensare. Mentre da una parte lo sviluppo di conoscenza e tecnologia contribuisce alla crescita economica, dall’altra racchiude la potenzialità per aiutare a gestire i rischi e le minacce verso la sostenibilità delle nostre relazioni sociali e degli impatti ambientali ed economici. Le innovazioni e le nuove conoscenze nel campo della tecnologia, del management e delle politiche socio-economiche (public policy) sfidano le organizzazioni a compiere nuove scelte su come i loro prodotti, servizi, operazioni e attività impattano sulla Terra, le persone e le economie.

IL PROCESSO DI STAKEHOLD ED ENGAGEMENT IN CINQUE FASI

L’urgenza e l’ampiezza del rischi e delle minacce alla nostra sostenibilità collettiva, cosi come l’aumento delle possibilità di scelta e delle opportunità, faranno diventare la trasparenza sugli impatti sociali, ambientali ed economici una componente fondamentale nella gestione di relazioni efficaci con gli stakeholder, nelle decisioni di investimento e nelle altre relazioni di mercato.

Per sostenere quest’aspettativa e per comunicare in maniera chiara e trasparente la sostenibilità delle singole organizzazioni, è necessaria una visione globalmente condivisa dl concetti, linguaggi e standard.

La trasparenza sulla sostenibilità delle attività di un’organizzazione rappresenta un interesse primario per una vasta gamma del suoi stakeholder, quali imprese, sindacati, organizzazioni non governative, investitori, esperti di amministrazione e finanza.

I criteri più utilizzati per l’elaborazione di report di sostenibilità sono quelli del cosidetto “Global Reporting Initiative” (GRI) che sta diventando lo standard di riferimento in materia, infatti, è utilizzato dal 70% delle aziende. Questo consente un processo di progressiva convergenza, confrontabilità e dunque anche sempre maggiore credibilità del “non financial reporting” come indicatore aziendale.

I cambiamenti climatici sono tra i temi emergenti. Quasi il 60% delle prime 250 aziende globali produce un report sui rischi legati ai cambiamenti climatici ed alle politiche aziendali in tema di contenimento di emissioni inquinanti. Il 68% delle società, inoltre, inserisce nei propri report una sezione inerente la corporate governance.

“La natura della crisi rende più urgenti le tematiche legate alla sostenibilità e accresce la voglia di comportamenti etici. Nel medio-lungo termine queste politiche aiuteranno a mitigare i rischi aziendali. L’attenzione per la CSR, al contrario di quanto si possa pensare, aumenterà nei prossimi anni”[4].

Rimane invece un tema tutto sommato ancora da valorizzare quello del reporting della “supply chain” che ha per obiettivo quello di avere una chiara mappatura della filiera di fornitori che interagiscono con l’azienda. Così come il coinvolgimento degli stakeholders, visto che il 37% delle società dichiara di non avere rapporti con i portatori d’interesse nella definizione di strategie riguardanti la corporate responsibility.

Il Paese che produce il maggior numero di “non financial reporting” è il Giappone (l’86% delle prime 100 aziende per fatturato adotta una strategia di CSR e produce un documento di reporting); l’Italia tra i 22 Paesi considerati, si trova a metà del ranking con il 42% delle prime 100 aziende per fatturato che dichiara pubblicamente di adottare politiche di CSR e di rendicontarle. Tra i Paesi considerati, la “maglia nera” della classifica va a Messico e Danimarca.

Le aziende italiane del campione (le prime cento per ricavi) vanno in ordine sparso per quanto riguarda le modalità di comunicazione dei report di sostenibilità: il 56% pubblica un CR Report separato; nel 30% dei casi le aziende forniscono un’informativa di sostenibilità anche nell’Annual Report. Il 6% delle aziende inserisce informazioni, tipicamente di alto livello, esclusivamente nell’Annual Report.

In coerenza con il trend internazionale, i temi di maggiore attualità sono collegati alla Corporate Governance e al Climate Change anche per le aziende italiane. In prospettiva la sostenibilità deve diventare fattore strategico di cambiamento e modello per la gestione dei processi aziendali”[5]. La motivazione che spinge sempre più aziende a rendicontare le proprie politiche di CSR è la reputazione aziendale, anche se alcune aziende dichiarano di farlo per anche aumentare la motivazione dei dipendenti o per ridurre i rischi aziendali. La sfida per il futuro rimane quella di fare in modo che il bilancio diventi espressione univoca e organica sia delle relazioni e delle performance di natura economico-finanziaria che di quelle sociali e ambientali.

  1. Il Report Sviluppo Sostenibile

Il reporting di sostenibilità consiste nella misura, comunicazione e assunzione di responsabilità (accountability) nei confronti di stakeholder sia interni che esterni, in relazione alla performance dell’organizzazione rispetto all’obiettivo dello sviluppo sostenibile. L’espressione “reporting di sostenibilità” assume un vasto significato ed è sinonimo di altre espressioni utilizzate per illustrare l’impatto economico, ambientale e sociale (ad esempio triple bottom line, corporate responsabilità reporting, ecc.).

Il report di sostenibilità dovrà fornire una rappresentazione equilibrata e ragionevole della performance di sostenibilità di un’organizzazione, compresi gli impatti sia positivi sia negativi generati dal suo operare.

Il report di sostenibilità che si basa sul GRI Reporting Framework illustra i risultati e gli effetti che hanno caratterizzato il periodo di rendicontazione relativamente a impegni, strategia e modalità di gestione dell’organizzazione. I report possono essere utlizzati, tra l’altro, anche per:

  • svolgere analisi di benchmark e valutazione della performance di sostenibilità rispetto a quanto previsto da leggi, norme, codici, standard di performance ed iniziative su base volontaria;
  • dimostrare in che modo l’organizzazione influenza ed è influenzata dalle aspettative in tema di sviluppo sostenibile;
  • confrontare la performance, sia nell’ambito di una stessa organizzazione sia tra diverse organizzazioni, nel corso del tempo.

La rendicontazione integrata ambientale, sociale ed economica è lo strumento che molte imprese, a livello internazionale, stanno applicando per ampliare il proprio ambito di governance e di comunicazione.

L’acquisizione di dati e di informazioni, organizzati in un sistema organico di contabilità che preveda un set indicatori appositamente definiti, costituisce pertanto un passo importante per la valutazione del comportamento dell’impresa da parte del management. La fase successiva è la redazione del rapporto di sostenibilità che rappresenta il documento destinato all’esterno, con il quale sempre più imprese comunicano le proprie performance ambientali, sociali ed economiche per rispondere alle richieste, spesso molto stringenti e puntuali, dei propri stakeholders.

Il World Business Council for Sustainable Development[6] (WBCSD), analizzando i vantaggi derivanti dalla pubblicazione di un rapporto di sostenibilità, ha individuato i seguenti aspetti:

– “mantaining the license to operate”, rafforza le condizioni alla base della licenza di operare attraverso il dialogo e la discussione con gli stakeholders;

– “creating financial value”, consente agli stakeholders di valutare gli assets intangibili derivanti dall’adozione di un approccio sostenibile;

“raising awareness motivating and aligning staff, and attracting talent”, incrementa l’attenzione verso i dipendenti e verso un comportamento etico, favorendo anche l’acquisizione di risorse di alto livello professionale attente a questi aspetti;

“improving management systems”, favorisce l’implementazione di sistemi di gestione all’avanguardia;

“risk awareness”, affronta la gestione interna del rischio con un’ampia e attenta analisi di individuazione, monitoraggio e controllo;

“encouraging innovation”, incoraggia l’innovazione attraverso un intenso dialogo internoesterno;

“continuous improvement”, favorisce un approccio allineato al concetto di miglioramento continuo anche nella comunicazione di sostenibilità, così come previsto nei sistemi di gestione;

“enhancing reputation”, migliora la reputazione dell’impresa e di conseguenza influenza le scelte del mercato;

“transparency to stakeholders”, dimostra l’attitudine dell’impresa ad agire in trasparenza con i propri portatori di interessi.

Secondo il WBCSD è necessario individuare anche gli eventuali rischi di una comunicazione concernenti le performance di sostenibilità.

La possibilità che il rischio si trasformi per l’impresa in un reale svantaggio e l’entità del possibile inconveniente sono strettamente connesse alle caratteristiche dell’impresa e ai propri legami con l’esterno, ma anche alla valenza e alla portata delle politiche e dei programmi di sostenibilità che tale comunicazione deve divulgare. In altri termini la comunicazione di sostenibilità deve essere radicata in un solido comportamento manageriale di sostenibilità, non si deve configurare come una dichiarazione di intenti ma come un insieme di scelte imprenditoriali.

I costi connessi alla rendicontazione dei dati economici, ambientali e sociali possono rappresentare un possibile deterrente per le imprese che decidono di adottare una comunicazione di sostenibilità.

Per far fronte a questa difficoltà potrebbero essere attivate le seguenti iniziative:

– valorizzazione delle risorse e del know how interno al fine della identificazione e gestione dei dati e delle informazioni;

– coinvolgimento di tutte le funzioni aziendali in possesso dei dati, al fine di attivare team trasversali ed integrati per mettere a punto il sistema di rendicontazione interno;

– organizzazione del processo di rendicontazione di sostenibilità per livelli successivi al fine dell’ampliamento dell’orizzonte temporale e della suddivisione dei relativi costi;

– programmazione di una transizione graduale alla comunicazione esterna delle performance di sostenibilità.

Una criticità della pubblicazione del rapporto è rappresentata dal fatto che la trasparenza su queste tematiche può comportare una maggiore esposizione alle istanze degli stakeholders. Le recenti esperienze sembrano evidenziare che un approccio meno trasparente sia effettivamente quello più dannoso per la reputazione dell’impresa.

Per evitare che questa comunicazione risulti inefficace rispetto alle aspettative esterne, è opportuno avviare, prima della predisposizione del documento, un’analisi attenta delle attese comunicative dei principali portatori di interesse.

In alcuni casi potrebbe essere necessario un processo di consultazione degli stakeholders per identificare tutte le istanze in gioco. Ma come evidenziato anche dal WBCSD, le imprese hanno ancora molte difficoltà nell’adozione di un sistema di consultazione strutturato e continuativo[7]. Per superare alcuni dei rischi indicati è fondamentale soddisfare i seguenti criteri della comunicazione di sostenibilità:

Consistenza. L’informazione deve essere specifica della sostenibilità ambientale, sociale ed economica dell’impresa e del dominio di consolidamento tematico, spaziale e temporale considerato.

Accuratezza. Gli indicatori devono essere il risultato di un processo di reperimento e contabilizzazione che consenta di acquisire un dato affidabile o con un margine di errore minimo e quantificabile.

Chiarezza. Gli indicatori devono essere facilmente comprensibili e ricollegabili al relativo metodo di calcolo.

Completezza. La comunicazione deve comprendere sia gli aspetti positivi sia le criticità concernenti la sostenibilità d’impresa.

Trasparenza. Le metodologie di calcolo devono essere evidenti oppure esplicitate.

Tempestività. Il continuo aggiornamento dei dati conferisce un maggiore significato alla comunicazione.

Verificabilità. Il sistema di gestione dei dati ambientali e sociali deve essere verificabile da un soggetto terzo.

Comparabilità. Le performance devono essere fornite in modo da essere confrontabili con quelle del settore di riferimento.


[1] Diceva D. Meadows (1998) che esiste un nesso tra i valori che misuriamo e i valori che creiamo. Lo stesso interesse muove le nostre osservazioni e le nostre convinzioni a proposito del mondo.

[2] Lo rivela la sesta edizione dello studio internazionale KPMG dal titolo “KPMG International Survey of Corporate Responsibility Reporting 2008” che punta ad analizzare lo stato dell’arte della Corporate Responsibility nel mondo. Allo studio, che ha cadenza triennale, hanno partecipato 22 Paesi, tra cui l’Italia, per un totale di circa 2200 aziende.

[3] World Commission on Environment and Development. Our Common Future. Oxford: Oxford University Press, 1987, p. 43.

[4] Commenta Pier Mario Barzaghi, il partner KPMG che ha seguito lo studio. KPMG è un network globale di società di servizi professionali, attivo in 145 paesi con oltre 123 mila persone. L’obiettivo di KPMG è quello di trasformare la conoscenza in valore per i clienti, per la propria comunità e per i mercati finanziari. Le società aderenti a KPMG forniscono alle aziende clienti una vasta gamma di servizi multidisciplinari secondo standard d’eccellenza omogenei a livello globale. In Italia, il network KPMG è rappresentato da diverse entità giuridiche attive nella revisione e organizzazione contabile, nel business advisory, e nei servizi fiscali e legali.

[5] Precisa ancora Pier Mario Barzaghi, il partner KPMG

[6]Sustainable development reporting – Striking the balance”, WBCSD, Gennaio 2003.

[7] “The company tries to identify stakeholders’ expectations in order to decide on the issues to be reported, but this process remains very subjective as it is only based on perceptions.” “Sustainable development reporting – Striking the balance”, WBCSD Gennaio 2003

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